Valorchives

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  1. dany the writer
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    Verona, Imperium dell'Uomo

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    Capitolo I-D
    Hahàva Voini’ìl




    +++Segmentvm Obscvrvs
    Hera-Amiir Sector

    Espansione di Zaqqurava
    Sistema Stellare di Hervara

    Hervara IV-B, Mondo-Civilizzato
    Continente di Invyyere

    Portal Danòrra, 203.06 chilometri SO da Negemyn
    M42.Y022+++


    L’orizzonte al di là del cavalcavia sussultò. Ondate di pressione batterono l’asfalto della provinciale, che rispose con tremori senza ritmo. Non trascorse che una manciata di secondi prima dell’arrivo dei fruscii agitati degli alberi.
    L’onda d’urto attraversò la galleria, spazzando un dito di polvere da sopra l’asfalto. Sbatté addosso alla prua dello Hypaspista, che rantolò sotto quel colpo.
    E poi passò oltre.
    I rinforzi terrestri s’accucciarono di colpo, aggrappandosi alle loro armi con scatti nervosi. Sia sul canale del Vox a corto raggio che dal dispositivo di Tiber sopraggiunsero i segnali acustici di via libera, seguiti da qualche scandita comunicazione di servizio.
    Era tutta normale amministrazione.
    Soldatini...
    Hahàva tirò su la manica destra e inclinò il braccio; sul quadrante del suo chronometròn da polso, le lancette segnavano le 07:17. Coprì l’orologio, tendendo l’orecchio al disperdersi delle eco. Non poteva biasimarli troppo; il 67esimo Guardia di Sol era un reggimento di supporto. Il suo lavoro, per dirla in parole semplici, non era quello di combattere ma di mettere gli altri nelle condizioni migliori per poterlo fare.
    Tuttavia, le era ben chiaro quanto fossero fuori-posto, laggiù: le loro uniformi scure e dorate erano perlopiù pulite e stirate e le armature non avevano addosso poi molti segni di scontro. Il loro ufficiale era il più vissuto, e più che altro sembrava uscito da una rissa a gomitate.
    Probabilmente quell’escursione ai bordi della zona operativa era più azione, in una volta sola, di quanta ne avessero vista in settimane. E che gran avventura!
    Una bella dose di stare-e-aspettare.
    Il cielo tremò di nuovo, questa volta dalla direzione opposta. Un brivido le attraversò la schiena e s’irrigidì lì dov’era, digrignando i denti. L’onda di pressione li scavalcò in una falcata a regime super-sonico, sfrecciando alle loro spalle. Da qualche parte giù a sud, forse verso Chernobasa, un tonfo attutito nacque e rimbalzò sorde vibrazioni a terra.
    Inclinò il capo, cercando una traccia di quel colpo nel cielo. Sopra alle loro teste, traforando una dozzina di nembi gibbosi, era apparsa una scia d’accelerazione. Già si stava disperdendo, sfocando i suoi bordi sullo sfondo rossiccio del cielo.
    I Severan stavano rispondendo al fuoco.
    «C’è passata vicino...», osservò uno dei Jerushiti, il sergente Lisan, rialzandosi in piedi. La mano gli era corsa al cane del suo fucile laser, un corto modello Qal-Qadesh Pattern dalla cella ricurva.
    «Sì, anche troppo!»
    Alle prese con l’ordigno nascosto nel muro, Qu’ssan scosse la testa. «I traditori vogliono innescare lo amtaal con la Tarkovyyna.»
    Sogghignò sotto il suo passamontagna a sentirlo parlare. Amtaal, duello. «Le navi non possono fare amtaaltra loro, aqha
    «Certo che possono. Amtaal è...»
    «So cos’è», lo interruppe, rivolgendogli una mano alzata e aperta. Di risposta, il sergente assentì e tornò a fare luce a Qu’ssan.

    Hahàva sbirciò il fondo della galleria, dove l’arco d’uscita apriva all’allungarsi dell’asfalto dipinto. Più a nord, oltre la stazione di sosta segnalata dal frontespizio del cavalcavia e al di là di Negemyn, doveva nascondersi la loro flotta atmosferica.
    «Oh, Libri!»
    Cariàd spostò la mano portante dal cane della las-carabina al fianco dell’astina. Era al centro della galleria, il più vicino al portellone taglia-fuoco. Al di là, i sette civili aspettavano ormai da più di mezz’ora d’essere liberati. Dalla finestrella che dava sul condotto aveva potuto vedere che erano quattro donne, un uomo anziano e due bambini. «Sì?»
    «Sicuro di saperci parlare con ‘sta gente?» Lo sapeva fare, ma dargli un po’ di fastidio aveva sempre il suo perché.
    Dalla loro prima, sfortunata operazione di combattimento in Netheria Peninsula fino a lì e poi ovunque il Comando della Crociata determinasse di spedirli a contrastare i nemici dell’Imperium, certe cose non dovevano cambiare.
    Com’era prevedibile, lui si limitò a sbuffare. «Dov’eri le altre seicento volte che l’ho fatto?»
    Hahàva sollevò una mano, schiudendo le dita felpate dal guanto tattico. «Egýt, ma vorrei ricordarti quella storia su Volgarft.»
    Libri scosse la testa. «Te la spiegherei, se solo non sapessi già quanto è inutile.»
    Incrociate le gambe davanti al fanale sinistro dello Hypaspista, Hahàva portò a sé il las-fucile e lo sistemò perché non fosse in linea con i commilitoni Jerushiti al lavoro sull’ordigno. Erano all’opera già da diversi minuti. Il loro viavai aveva ammonticchiato materiale per il disinnesco, schermi di controllo e una disordinata mareggiata di plastek istruttivi ai piedi della parete.
    Anche Cariàd spostò la sua attenzione su di loro, ma tenne il suo Accatran basso.
    A mezz’aria, il sapore del Promethium esausto, spinto fuori dal loro Hypaspista, così come dal Taurox dei soldatini mezzi inutili, si faceva più forte. Era acre. Attraversava il tessuto dei passamontagna e pungeva le narici. A tratti, sapeva come d’incenso andato a male.
    «Ah-ah, divertente. Dilla in parole che puoi mangiare.»
    Quell’espressione lo punse, proprio come avrebbe fatto il pungiglione di un’ape, portandolo a lanciarle un’occhiata di traverso. Al sopraggiungere di nuove scosse, tre che provenivano da sopra alle loro spalle, aggrottò la fronte. «Woah, cos’è questo citare il capitano?»
    «Non ha tutti i torti, no?»
    Le eco svanirono man mano.
    «Mah!» Con la destra, Libri accennò rapido al portone. «Loro? Un dialetto Haronico. La gente su Hive Volgarft? Un dialetto Ishtarico. Non parlano la stessa lingua.»
    Si umettò le labbra con un passaggio della lingua. Per quello che aveva sentito, era sempre la stessa brodaglia di vocali mangiucchiate e suoni senza Dio-Imperatore. «A me sembra tutta uguale...»
    «Magari, Ha’, e dico magari...» Libri si spostò per dare più spazio agli artificieri. «Potrei saperne di più io che queste robe le ho studiate, eh. Però tranquilla, la mia è solo un’ipotesi.»
    «Uhm. Sì, forse.»
    Saltò giù dallo scafo. Puntando il suo Merovech-Pattern in basso, lo inclinò a lato per accedere ai controlli delle due binate celle energetiche. Ambo erano illuminate di verde. «Ma alla fine hai capito di cosa blaterava… si chiamava Vlodgja? Valodya? Vlodia?»
    «Valodia», scandì lui, come se le stesse facendo una lezioncina. «E ti stai confondendo. Valodia era il sergente. Ti riferisci a Baris.»
    «Sì, lui, Boris.»
    «Bah-ris
    Sistemata la tracolla della sua arma, Hahàva alzò gli occhi al cielo. «Non fare il Vendas, ora. Quel coglione lì, comunque.»
    Ièn scrollò le spalle. «Mah! Era ubriaco come una mela. Ad ogni modo, era qualcosa-qualcosa su un tizio che aveva ammazzato un sacco di gente, fracassato un quartiere e rubato tutta la sua vodka.»
    «Pezzo di merda.»
    «Mmmh», Ièn assentì, interessato alla porta. «Se vuoi la mia, probabilmente era un kasr’ abbandonato e su troppi steroidi.»
    «Oppure un niccian.» Manica di gene-potenziati falliti. Le sarebbe piaciuto ucciderne qualche altro, dopo il loro assalto a Busphorìn. «Comunque, non era roba per noi.»
    «No, non lo era.»

    Un picchiettio dal tono metallico rintoccò nella galleria. S’allertò e la sua mano scorse all’impugnatura del Merovech-Pattern e alla scocca del grilletto.
    Issandosi in piedi, Qu’ssan sputò a terra e pestò il piede sulla sua saliva. In alto sopra alla testa, strette con la mano sinistra, le tenaglie mordevano un piccolo pannello di metallo. «Andata!»
    Aurelios gli diede una sonora pacca sulla spalla, spingendolo in avanti di mezzo passo. «Grande! E bravo bastardo, ce l’hai fatta.»
    L’artificiere liberò il pannello della morsa e lo gettò a carenare innocuo sull’asfalto. Ripose le tenaglie in una giberna e tornò subito chino, presso la parete. Ora era visibile un rettangolo, profondo non più d’un pollice in lungo, scavato nel cemento armato. Hahàva si avvicinò, scavalcando con una falcata il filo d’innesco finito floscio a terra.
    All’interno del vano c’era una scheggia-cogitator collegata a degli involti di plastico. Qu’ssan ne estrasse uno e lo fece rimbalzare sul palmo della mano. «Ma guarda un po’...»
    Il capitano dei soldatini venne a spalleggiarlo; accostò la telecamera all’involto, tracciando un lento semi-cerchio per catturare quanti più dettagli poteva. Qu’ssan attese che finisse prima di riporre l’esplosivo presso i suoi piedi. Punse il sacchetto per rovesciarlo sul fianco e lo girò, aiutandosi con una bacchetta di metallo dalla punta gialla.
    «C-IV d’ordinanza!», annunciò. Sul viso, scavato dal sole, c’era uno stanco sorriso di soddisfazione. «Lotto 248-3116-1438, Velecti Manufactorum, Lorn III.»
    «Questa merda è aurelica...», commentò subito uno dei soldatini del capitano, accovacciandosi per vedere meglio l’esplosivo. Hahàva l’occhieggiò per un secondo, rilassandosi al vederlo non avvicinare le mani al plastico. «Quindi sono stati loro.»
    «Maledetti traditori!»
    «Schifosi aurelichas...»
    Il sergente Lisan alzò una mano: «Non saltiamo a conclusioni affrettate» disse perentorio, imponendosi sul mormorio delle guardie terrestri. «Potrebbe essere stato chiunque, dopo aver messo le mani su qualche magazzino.»
    «Sì, può darsi», replicò l’ufficiale dei terrestri. Com’è che si chiamava?
    «Con le guerre in Korianìs c’è stato molto disordine», continuò il sottufficiale jerushita. Era andato subito a fiancheggiare l’operato di Qu’ssan, inginocchiandosi alla sua destra e facendogli luce mentre lavorava. Come lui, era solido e ben piantato. Sul suo viso, incisi in verticale, c’erano dei simboli tatuati di colore nero. Lettere, le aveva riconosciute.
    Non erano troppo dissimili dalle incisioni sui Grandi Templi. Libri era quello pratico con le lingue, ma lei conosceva liturgie e canti. «Accusarli senza altre prove potrebbe non essere saggio. Ma se questa è stata opera loro, possano scheggiarsi le loro lame.»
    Aurelios e Sirio annuirono quasi all’unisono. «Yamn, phrà
    «U’kha-ljamen», replicò lui mentre Qu’ssan disponeva fuori dal vano gli altri involti di plastico. «Ora che l’ordigno è stato disarmato possiamo tirare fuori i civili da lì.»
    «Finalmente», borbottò Ièn, stringendo il maniglione anti-panico. Alzò l’indice dell’altra mano, portandolo proprio difronte alla finestrella. Disse qualcosa nell’incomprensibile lingua dei locali, che lei non capì, poi tirò la porta a sé.
    E questa non si smosse.
    «Cazzo, è bloccata?» Tirò di nuovo, ottenendo lo stesso risultato di prima. La porta rimaneva lì, quasi a prenderlo in giro.
    Con uno scatto, Hahàva si portò alla sua sinistra. «Libri, meno seghe e più flessioni!»
    «Vai a farti fottere!»

    Si gettò il Merovech-Pattern a tracolla e piantò i piedi contro l’asfalto, abbrancando il maniglione con ambo le mani. Ièn scosse la testa e, riposto il suo Accatran dietro le spalle, la imitò.
    «Al tre?»
    «Andata. Uno, due...»
    Tirarono con tutte le loro forze. Lanciando un lamento stridente e affaticato, la porta si sganciò dai suoi blocchi e si mosse incontro ai due.
    Abbandonarono la presa allo stesso momento, ritirandosi per recuperare le forze. Libri si spazzò le mani sui calzoni della mimetica e sbuffò, tornando alla carica con un ringhio sommesso. Facendo leva sul piede, spinse indietro la porta d’una spanna e poco più.
    «Hàva, non startene lì impalata!», la maledisse, flettendo le dita. «Mi aiuti o no?»
    Dorn Santissimo, di cos’era fatta? Acciaio super-corazzato e cemento? Anzi, no! Elmetti di hell-divers sciolti e ri-forgiati, magari?
    Incassata la testa tra le spalle, Hahàva si riunì agli sforzi di Ièn e assieme ripresero a tirare, spingendo l’anta sempre più lontana dai cardini. Guadagnato un varco, Hahàva sgusciò una mano sul lato interno e s’impuntò, caricando la sua spinta con le spalle e la schiena.
    Con uno stridio acuto, la porta cedette. Svirgolò in avanti, spingendo Libri in avanti e scaricandogli addosso l’impeto che le era stato gravato addosso dai loro sforzi. Il commilitone lasciò andare la maniglia e si spostò con uno scarto a sinistra, quasi stendendosi sull’asfalto. Si salvò all’ultimo dal cadere all’indietro, piegandosi su di un lato recuperare l’equilibrio.
    «Phràs...», esordì Markhairena, tendendo una mano a Libri. «Penso che fosse da spingere.»
    Ah...
    Lui si aggrappò al suo avambraccio, tornando in piedi con un colpo di reni. Quasi d’istinto, si volse e piantò un calcio contro la porta. Il colpo risuonò all’interno della galleria, simile ad uno sparo a bruciapelo, e i civili si rannicchiarono contro la parete interna.
    «Stupida bastarda!»
    «Libri, calmati» gli disse Hahàva, stringendogli le spalle con il braccio. Come lui, aveva il fiato tagliato un po’ corto. «È fatta, è fatta.»
    «Sì, sì...»
    «Mezzasega.»
    «Cosa, che ho fatto tutto io?»
    Intromettendosi, Aurelios si portò dirimpetto alla porta. I civili non si erano mossi. Anzi, erano ancora stretti al muro, con occhi sbarrati ed espressioni intimorite.
    «Non vogliamo farvi del male!», disse il sergente. Indicò l’Imperiale Aquila Bicefala stampata sulla sua placca toracica, battendoci contro pian piano. «Siamo amici. IG! I-G! Guardia Imperiale.»
    Lasciò andare il commilitone, dandogli una spintarella in avanti. «Renditi utile, Libri. Traduci, che non mi sembra che abbiano capito molto il sergente.»
    Affiancando Markhairena, Ièn si schiarì la voce con un colpo di tosse. «Mye druhiiv. Imperialnyy Gvardia. Astra Militarvm, zvid’ Elysiya ta Jerushiim i Sancte Terra. Hqto u vas ‘varye Narmalnyy Hotike?»
    Una delle donne, sulla trentina e con uno sporco cappotto color panna, alzò timidamente una mano. «Io. Io lo parlo un po’. Siete… siete amici?»
    I due bambini erano attaccati alle sue ginocchia, notò Hahàva. I leggins della bambina erano sporchi di pioggia e polvere di strada, mentre il maschio le teneva la mano, quasi pronto a volersi frapporre. Non potevano avere più di otto o nove anni.
    Ièn annuì, piano. «Sì, signora. Non vi faremo del male», disse. Lo ripeté un momento dopo, passando a quella sottospecie di Haronico locale. «Siamo il vostro esercito, venuto a liberarvi.»
    L’anziano si avvicinò al sergente. Gli strinse l’avambraccio, come a volersi appoggiare a lui. «Tu… sei alto, figlio.»
    «Mamma mi ha dato dei geni buoni», gli rispose, guidandolo ad appoggiarsi fuori dalla porta. Si assicurò che stesse bene, poi scoccò un cenno a Ièn.
    «Capisci che cos’è successo qui, d’accordo? Evacuiamo questa gente quanto prima.»

    Ièn offrì una sigaretta alla signora con il cappotto sporco. Dei sette, era la più reattiva. «Può dirci cos’è successo?»
    «Sì, sì...» mormorò, sporgendosi in avanti per approfittare dell’accendino di Ikaròs. «Siamo di Nemesmi, veniamo da lì. Stavamo andando a Chernobasa.»
    Ikaròs inarcò un sopracciglio. «Nemesmi? È a ottanta chilometri da qui. Territorio Severan.»
    «Sì, lì comandano loro.»
    Ancora per poco, se ci lasciano andare avanti. «E perché volevate andare a Chernobasa?»
    La donna inspirò una nervosa boccata di fumo.
    «Ci siete voi, ecco perché. Abbiamo visto le luci, le fiamme… le esplosioni. Quando sono passate le ambulanze e i convogli, abbiamo capito che eravate sbarcati.»
    «Rincuorante.» Non le dava l’idea che stesse mentendo. Era sotto-shock, certo, ma riusciva a farsi intendere. Il suo accento era lo stesso dei locali, per quanto più lieve in certi toni. «Quindi si è sparsa la voce del nostro arrivo.»
    Assentendo con il capo, lei continuò a fumare. «Siamo scesi in strada per guardare, ma i severan hanno imposto il coprifuoco e hanno mandato i loro a disperderci. Nel caos ho preso i miei nipoti e la macchina. Ci hanno sparato addosso!»
    Guardando Ièn di sottecchi, Hahàva lo vide aggrottare la fronte. «I due marmocchi sono i tuoi nipoti, quindi?»
    «Lionne e Jakrov.»
    «E poi cos’è successo?» incalzò Ikaròs, tirando a sé la tracolla del las-lungo. «Come siete finiti chiusi dietro la porta?»
    «Mi sono… unita ad altri che scappavano. Alcuni li ho presi a bordo, altri avevano la loro macchina. Abbiamo percorso la Provincialii per evitare i posti di blocco e per del tempo siamo stati da amici. Ci siamo rimessi in moto dopo alcuni giorni, ma ci hanno raggiunto qui.»
    «Chi? Le truppe del Severan?»
    La donna fece di sì con il capo. «Sono dei loro, sì, ma sono aurelici. Hanno armi e armature. Hanno sequestrato gli uomini e ci hanno chiuso dentro il condotto, messo la trappola e poi sono tornati indietro. Erano aurelici, però. Non severii.»
    «Signora, permette una domanda?», s’intromise l’ufficiale dei terrestri. Assieme al suo assistente di campo, si avvicinò a loro. Dalla cintura prese un palmare; sbloccato lo schermo, lo tenne sollevato perché lei potesse vederlo bene.
    «Questi aurelici avevano, per caso, queste insegne sulle uniformi?» Sullo schermo c’era la fotografia di un milite aurelico in anti-schegge e divisa verde scuro. Sullo spallaccio aveva uno scudetto verticale, attraversato da tre bande blu, viola e rossa. «Se si ricorda, ovviamente.»
    Hahàva represse un moto di sano disgusto alla vista di quello stemma.
    «Sì, sì. Avevano quelle insegne.»
    «Ah, fantastico...» mormorò l’ufficiale terrestre, girandosi di spalle e carezzandosi il mento. «Eccoli qui, i soldati di Ioannìs.»
    Gli schifosi scarafaggi delle Bande Scure. Guardando Ikaròs, Hahàva lo trovò intento ad aggiustare il livello del mirino di precisione. Ièn, invece, aveva incrociato le braccia contro il petto e tamburellava, scuro in viso, contro la tracolla del suo Accatran.
    «Sono dei macellai» continuò la signora, prendendo un respiro dal mozzicone ancora acceso. «E non sappiamo dove abbiano portati i nostri uomini!»
    «Ci hanno giocato», borbottò Hahàva, allontanandosi d’un passo. «Ci hanno fatto perdere tempo qui mentre ripiegavano e ora si saranno nascosti da qualche parte. Fantastico. Davvero fantastico, phràs
    «Guarda che quella è la frase del colonnello. Non citarlo, non sei lei.»
    Quanto era petulante! «Posso fare quel che cazzo mi pare, Libri.»
    «Sì, sì, continua a dirtelo...»
    L’ufficiale terrestre si intromise di nuovo: «Riporteremo queste informazioni al nostro comando, ma vi chiediamo di ripeterle in sede. Verrete con noi, se non vi dispiace.»
    «Dove?!»
    «Ci sono delle stazioni di filtrazione, ma non posso darle altri dettagli. Quelli dell’intelligence si accerteranno che siete leali.» L’espressione impaurita che si dipinse sul viso della donna spinse l’ufficiale a mettere le mani in avanti. «E vi forniranno immediatamente un posto dove stare finché non avremo scacciato i separatisti da casa vostra.»
    «Ma… e i miei nipoti?»
    L’uomo le fece cenno di tranquillizzarsi. «Verranno e staranno con lei. Non abbia paura; noi resteremo qui fino all’arrivo di un veicolo per portarvi in salvo. Vi chiediamo solo di cooperare con noi, come avete già fatto.»
    «Non siamo spie!»
    «Non ne dubito, signora», le rispose, facendo un passo in avanti con affabilità. «Andrà tutto bene e l’accertamento sarà rapido. E sotto la nostra supervisione. Non abbiate paura. È nostro interesse, però, togliervi dalla linea del fuoco.»
    E su quello aveva ragione. Con i civili in mezzo ai piedi, combattere diventava più difficile. Il fuoco amico era comprensivo, ma loro erano la Guardia Imperiale. Lo scudo che difendeva i regni dell’Imperivm non era bene che si mettesse a sparare sugli stessi.
    Non se poteva evitarlo, perlomeno.
    Fu a quel punto che notò Lionne, ancora attaccata alla giacca della zia e alla mano di suo fratello. La marmocchia aveva messo la mano in tasca e stava cercando qualcosa. Quando si accorse che l’aveva vista, abbassò la testa e continuò a cercare.
    «Cosa fai?», le sussurrò la zia. In risposta, la bambina tirò fuori un pugnetto d’imbottitura sfilacciata. Al centro della stessa c’era una catenella, appesa alla quale c’era un piccolo monile. Una lancia, imposta su due spighe di grano, alle spalle d’una classica Aquila Bicefala Imperiale.
    «E di papà!»
    Ièn annuì. «Oh, lo stemma di Garon.»
    Quasi a giustificare la bambina, la donna sospirò esausta. «Loro padre era stato mandato qui come guardia interna. Non sappiamo che fine abbia fatto.»
    Vedendo dove stava guardando la piccoletta, Hahàva chiuse gli occhi. Certo, era ovvio. Alla fine, che cosa le costava?
    Guardandola negli occhi, le sorrise con un mezzo cenno d’assenso e batté il pugno destro contro il centro della propria placca toracica, vicino a dove stava il suo cuore. Era lì che l’Aquila Imperiale era stata serigrafata sulla sua armatura, con le ali spalancate e il singolo occhio aperto.
    Ièn avrebbe potuto prenderla in giro, non si salutava un civile, ma evitò. Anzi, si unì al suo saluto, con una goccia di ligia precisione in più del suo solito.
    Anche Ikaròs si unì a loro.

    «Gente, a bordo!», esclamò Aurelios, arrampicandosi sullo scafo dello Hypaspista. Si sistemò vicino alla torretta, dispiegando in grembo il suo las d’assalto. Abbarbicandosi vicino a lui, Hahàva ruotò la propria arma per accedere al pannello di controllo della cella energetica.
    L’aveva già fatto prima. Sapeva che entrambe erano cariche e pienamente funzionali, ma c’era del buono nell’essere cauti.
    Sistemandosi vicino al copri-cingolo destro, Libri si tolse di dosso lo zaino tattico e lo trasformò in un cuscino improvvisato, sedendovi sopra.
    Con un sobbalzo, il veicolo tornò in moto. I suoi cingoli stridettero, assalendo l’asfalto con un ciclo continuo di placche in movimento.
    «Andiamo a caccia di aurelici.»

    Edited by dany the writer - 19/3/2024, 21:17
     
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