Valorchives

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  1. dany the writer
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    Il canale ad onde corte crepitò, di nuovo vivo e attivo. «Vang-Primvs A, qui Vang-Primvs B. Statvs
    Quella era la voce di Tiber.
    In sottofondo alle sue parole, però, c’erano degli spari d’arma laser. Là fuori i loro commilitoni si stavano mettendo all’opera, avanzando sulla Ljud’ Domusve, oppure gli aurelici erano riusciti ad individuarli prima e avevano aperto il fuoco per sbarrargli la strada.
    In tutta onestà, aveva pensato ai severan, ma se le parole delle due aureliche erano vere, se n’erano andati lasciando le zecche di Meridian a morire al loro posto.
    Il sergente Markhairena, già chino sulla prima militare che avevano abbattuto, staccò la mano dalla scocca di tiro. La polarizzazione del suo elmetto si ritrasse, lasciando in chiaro la sua faccia. Sollevò la visiera con l’indice della sinistra, quindi occhieggiò alla propria sinistra.
    Ièn ispezionò i due cadaveri a distanza. Erano decisamente morti, ma il Colonnello aveva ripetuto mille e poi altre mille volte che un controllo in più salvava vite.
    «Vang-Primvs B, situazione ordinaria. Sotto controllo.» Il sergente strappò la metà asportabile della piastrina dell’aurelica e se la infilò in tasca.
    Numeri nelle mani dei giganti. La Crociata del grande Lord Solar li aveva dirottati lì per contrastare l’invasione e recuperare all’Imperivm quelle stelle, ma perché o come erano discorsi al di là della sua comprensione. O di quella che potevano aver avuto le due morte.
    Alla fine, loro erano solo numeri nelle mani dei giganti.
    «Due ostili azzerati
    Per l’Imperatore-Dio sulla Sacra Super Terra, però; il sergente aveva delle occhiaie proprio nere. Aggrottò la fronte, forse lottando contro un guizzo di sonno; stappò un taschino, dal quale tirò fuori una pillola energetica kepopho. La ingollò senza neanche un sorso d’acqua, sull’unghia, rilassando le spalle quando la scarica d’energia gli attraversò i muscoli.
    «Sarj?», esordì Ièn. Lui gli rispose con un pollice alzato, poi si riscosse in piedi.
    Andava tutto bene.
    «Erano aurelikas. Fantaccini. La vostra situazione, invece?»
    Attraverso la statica, lo staccato metallico della brandeggiabile si fece sentire. Jason aveva esploso una raffica e i timbri del martelletto d’innesco, fortissimi anche attraverso i muri e la porta della casupola, si sdoppiavano attraverso il canale Vox.
    «Stiamo muovendo all’assalto della Casa!» Una sequenza di crudi improperi salì dal sottofondo della trasmissione, interrompendo il suo comunicato. Era Zhì, quella? «Fianco destro sicuro?»
    «Statvs corrente ignoto. Indaghiamo.»
    La raffica s’interruppe, riprendendo solo alcuni secondi dopo. Colto cosa volesse il sergente da lui con quelle parole, Ièn si girò per fronteggiare i civili. Nel farlo, riportò l’Accatran-Pattern in posa di guardia, pronto all’uso ma lontano dal metterli sotto tiro.
    Una era un’anziana. Le altre due erano donne più giovani, forse sui trenta. Queste ultime erano strette attorno alla prima, che si dondolava avanti e indietro, reggendosi la testa tra le mani. Era in stato di shock, ma darle un sedativo non sarebbe stata la migliore idea.
    Le questioni mediche era meglio lasciarle a chi ne sapeva di più, fermo restando che con la sua età, avrebbe potuto ucciderla. La roba che avevano loro non era da banco o da para-farmacia.
    Appoggiò la mano disarmata alla Bicefala Aquila Imperiale impressa sulla sua armatura. Indicò lo stemma con l’indice, tamburellando perché lo notassero e vedessero. I separatisti del Sogno usavano un falco, il Severan usava una singola Aquila e gli aurelici avevano i giavellotti di Meridian come loro simbolo. Tra tutti quegli stemmi, l’Aquila di Terra e Marte era la grande anziana.
    Dodici millenni, e ancora volava. «V’Haronikoiu?»
    «Nyu, rokyy», gli rispose una delle due donne. Si alzò, lasciando l’anziana alle cure della sua compagna. Era bassina, con un paio di piccoli occhiali da lettura montati sul naso aquilino. «Plasze Hervariuku
    Oh, quello poteva complicare le cose. «I Hotiku?»
    «Eh, un po’...» Aveva molto accento locale, ma riusciva comunque a capirla. «Siete la Gvardya, tja?»
    Hahàva lo scavalcò, offrendo ai civili un cenno della testa. «Tjak
    «Permetti?»
    «Sì, sì. Volevo dirlo io, una volta tanto...»
    Allungò la mano verso la compagna di squadra e gesticolò mezzo secondo, quasi a voler dire alla sua interlocutrice che era fatta così. Farci troppo caso non serviva a niente. «Sì, siamo soldati della Guardia Imperiale. Il vostro esercito.»
    Tecnicamente erano di Sector diverso, dominato da un feudo forse ben differente da quello che sedeva su Garon-in-Frangia, ma quelli non erano che dettagli. Come Guardia Imperiale, erano l’esercito di tutto l’Imperivm.
    Un’armata di armate.
    L’anziana fermò il suo dondolio e salmodiò pietosa qualcosa in hervariko. Lottando contro i postumi del sonno e della stanchezza, Ièn provò a decifrare le sue parole. Non gli sovvenne niente e così la guardò come un pesce lesso, inclinando il capo.
    La donna senza occhiali tartagliò quasi offesa: «Vi ha mandato l’Imperatore.»
    Tecnicamente parlando, gli ordini del Lord Solar. Ma se questo la faceva sentire meglio, perché no? «Sì, signora. Ci ha mandato Lui. Abbiamo bisogno della vostra cooperazione, mi capisce? Seguite le indicazioni che vi diamo.»
    Dalla strada rotolò fino a loro il tuonare della mitragliatrice brandeggiabile di Jason. Inframezzati tra i suoi calibri blindati c’erano degli schiocchi d’arma laser. «Non vogliamo derubarvi, né farvi del male. Ci serve sapere, però, se ci sono altri aurelici, o severii, nei paraggi.»
    «Parr...»
    «Vicinanze.» Forse anche quella era una parola un po’ troppo difficile. Com’era in Haroniko, però? «Tut, tjak? Ni, uhm… zdezìt
    «Zdeshet
    «Da!» Si bloccò, volenteroso di mordersi la lingua. Quello era giusto in Vostroya e in Haronikyy Primaris, non in Haroniko medio. «Tak, tak! Sì, certo… tjak
    Hahàva si schiarì la gola con un colpo di tosse. «Libri, va tutto bene?»
    «No, cazzo. Mi sto incasinando.»
    «I bambini sono al sicuro?», intervenne Markhairena. Le tre donne lo guardarono di colpo e lui rispose facendo spallucce. «Sulla dispensa c’è del latte e ci sono due scatole di Pritiami
    Hahàva si sporse sulla cucina. «Chyz, davvero? Che occhio, sarj
    Come d’istinto, Ièn si girò a sua volta. Effettivamente, Markhairena aveva ragione: in cima ad una madia affissa alla parete c’erano due bottiglie di latte, nascoste dietro un cesto di vimini. Più in disparte, dentro uno scatolo di cartone, c’erano due confezioni di chicchi tostati.
    La donna con gli occhiali assentì. «In cantina, sì...»
    «Raggiungeteli e restare di sotto finché non vi diamo il Via Libera, è chiaro?» Riprese Aurelios, massaggiandosi la fronte. «Ièn, diglielo anche nella loro lingua.»
    Era più facile a dirsi che a farsi. Osservò l’ordine del sergente al meglio, sperando che la donna con gli occhiali conoscesse abbastanza Haroniko da riuscire a capirlo. Aiutando l’altra a sollevare l’anziana, però, lei si spostò verso una piccola porta di legno.
    Doveva dare sul piano inferiore, quindi aveva capito.
    «C’erano solo loro», disse guardando di sottecchi alle due aureliche morte. «Volevano la nostra… carburante? Promthia?»
    «Promethium. Benzina, cercavano benzina.»
    «Sì.»
    Quindi il loro Chimera è davvero bloccato. Ottimo a sapersi. «Sono tutti alla Ljud’ domusva?»
    Prima di rispondergli, aprì la porta e aiutò l’altra donna a far passare l’anziana. I loro lineamenti avevano un che di comune; era probabile che fossero sorelle, e quella fosse la loro madre. Oppure una zia ormai vecchia che avevano preso in casa.
    «C’erano anche severii, prima. Ora sono via.»
    «Ah!», gracchiò Hahàva, ridacchiando sottovoce. «Se ne sono andati lasciando i ratti a morire qui. Avrei fatto lo stesso.»
    Be’, chi non l’avrebbe fatto?
    Dalla porta aperta fecero capolino due ragazzini, non più giovani d’otto o nove anni, con i capelli scompigliati e qualche foro tra i denti. I cinque civili confabularono tra di loro per un secondo, poi si mossero tutti oltre la porta.
    «Pochi uomini da queste parti...», osservò Hahàva. Era pensierosa. «Sono tutte donne, anziani e bambini.»
    In effetti, d’uomini in età d’armi non ne avevano visto manco mezzo da quando avevano lasciato la periferia di Chernobasa alle loro spalle.
    La fine che potevano aver fatto era auto-esplicativa. I severii potevano averli coscritti per le miniere, le loro milizie o averli uccisi a sangue freddo per domare la popolazione.
    Non sarebbe stata la prima volta.
    Sgomberati i civili, Hahàva prese una delle due scatole di chicchi tostati e la scosse ripetutamente, sempre su e giù. Il fruscio che s’espanse era di cartone semplice e fragrante preparato. Ièn abbassò la testa, scosso dalle sue stesse risate.
    «Dici che...» Sotto lo sguardo di Markhairena, Hahàva infilò la mano nel cartone, scavando con pedissequa insistenza «dentro c’è ancora la sorpresa?»
    «E che cazzo te ne fai?»
    Lei fece spallucce, ingollando un pugno di chicchi. Li masticò per alcuni secondi, scrocchiandoli apposta tra i denti. Dovevano essere davvero molto, molto croccanti. Così come aveva cominciato, così la piantò riponendo la scatola al suo posto, sopra alla dispensa. Risistemò il proprio elmetto, quindi occhieggiò la cucina in cerca di lei solo sapeva che cosa.
    O perché.
    «Niente, chiedevo.»
    «Vuoi fotterti la sorpresina dei cereali per bambini?»
    La compagna di squadra squadrò il sergente: «Oy, magari le colleziono! Che ne sai?»
    «Ma… perché?» le domandò Ièn. A quale fine? Non valevano più di venti centesimi di Trono l’una, ed erano giocattolini di plastica colorata! «E poi non siamo qui per rubare ai civili.»
    «Non gliela rubo, Libri. Era solo per vedere.»
    Il Vox gracidò: «Vang-Primvs A, qui Vang-Primvs B. Ricevete?»
    Il sergente non esitò a rispondere: «Positivo, Vang-Primvs B
    In sottofondo allo scambio sulle onde-corte c’erano ancora, forti ma non fittissimi, degli spari. Ci tese l’orecchio, distinguendo gli scoppi supersonici delle armi laser dal tuono, più ferroso e pesante, dei calibri cinetici. Tuttavia, erano passati pochi secondi dalla fine della loro comunicazione di prima. Perché si rifacevano sentire?
    «Abbiamo appena rilevato contatti alleati in arrivo», annunciò Tiber. Ièn sentì una scarica di adrenalina attraversagli i muscoli, irrigidendolo dalla nuca alla schiena. Amici sul campo, era anche l’ora! Finalmente la situazione si stava scaldando.
    «Il sergente Quarta vi chiede di coprire il loro arrivo, plvs
    Markhairena non esitò nemmeno un secondo: «Direttiva di provenienza?»
    Non gli venne detto niente e la comunicazione cadde nel vuoto. Ritornò in vita venti secondi dopo, in seguito ad un singolare crepitio di statica. Il sergente Markhairena accennò alla porta di casa con la testa, quindi riformulò la sua domanda.
    La replica dell’operatore-vox giunse alcuni attimi dopo. Venivano dalla Provincialii Via M.49, la stessa strada che avevano percorso loro. Sarebbero transitati dalla discesa, occupando quella che ora era diventata la posizione di retroguardia dello Hypaspista.
    «Plvs-plvs. Hai dettagli sulle loro identità?»
    «Sì!»
    Ma il canale s’interruppe di nuovo.
    Ièn scattò all’uscio e l’aprì piano, mettendo un piede sul pianerottolo d’ingresso. Un nastro verticale di scoppi laser esplose contro il bordo della porta, sprizzando schegge di legno infuocato a velocità super-sonica. Si riparò dal loro esplodere, alzando il braccio sinistro per pararsi il viso.
    Un fiotto gli sbatté comunque contro la placca toracica. Si ritrasse all’interno dell’abitazione, scosso ma più sveglio di quanto fosse stato un momento prima. Il primo controllo che fece sul proprio corpo gli disse che non aveva fori d’entrata e uscita.

    «Ci hanno visto», sibilò a denti stretti. Due schegge gli avevano graffiato il braccio sinistro, lacerando la mimetica da fatica. Erano passate appena sopra al bracciale in syntho-plastacciaio, mancando le vene arteriose di qualche centimetro.
    S’inginocchiò, mise da parte il las-fucile e controllò le ferite che gli avevano provocato.
    Sospirò sollevato quando trovò che erano solo due tagli superficiali. Recuperò l’arma, bestemmiando contro il bruciore che gli pervadeva il braccio. Fece cenno ai due commilitoni di aspettare tre secondi, poi si defilò sul lato interno dell’uscio, tenendo la porta alla propria destra.
    Non arrivarono spari.
    Hanno visto una porta aprirsi e hanno scaricato fuoco di risposta. Una reazione normale, anche se da fantaccini. Non sanno che siamo qui dentro o in quanti siamo.
    Ma uscire allo scoperto gli avrebbe confermato che era un punto da tenere inchiodato. Ièn si girò in cerca del sergente, trovandolo al proprio fianco.
    «Come li copriamo se non possiamo uscire?»
    Markhairena controllò che il suo lanciagranate fosse carico. All’interno c’era ancora l’ordigno a frammentazione che aveva inserito prima. Lo fece slittare fuori con un colpetto del palmo, riponendolo subito in una giberna.
    «Usiamo i fumogeni per muoverci» Spinse nel tubo lanciatore una diversa granata e chiuse lo slot con uno schiaffo sonoro. Dietro ai due, Hahàva stava a sua volta cambiando granate; dopo aver scambiato la frammentazione con la fumogena, ne tirò fuori una dall’equipaggiamento dell’aurelica che avevano azzerato con un colpo alla testa.
    «Oy, ‘ste due stronze ne hanno altre con loro.»
    «Di che pattern?»
    Analizzandone una in controluce, Hahàva assentì tra sé e sé. «Meridian-Secvndo Pattern. Fumogena, se t’interessa.»
    «Il composto sarà lo stesso.»
    Aurelios allungò la mano e Hahàva gli lanciò la granata, che lui prese al volo. Strappò la linguetta di sicurezza e la fece rotolare fuori dall’uscio, ritraendosi per non inalare il composto. L’ordigno scoppiò presso un tombino e il fumo invase la strada, sibilando in tutte le direzioni. Una sequela di spari laser ci piombò dentro, scoppiando sull’asfalto come tante gocce di pioggia.
    «Fantaccini...», mormorò Hahàva, allungando loro un’altra fumogena. Ièn la prese, l’innescò con una spintarella del pollice e poi trasse indietro il braccio. La scagliò con forza al di là delle due carreggiate, facendole fare un numero di giri su sé stessa mentre cadeva a parabolica sul marciapiede. Scoppiò un momento dopo, sprizzando una nube bianco-grigiastra attorno a sé.
    «Vang-Primvs B, mi ricevete?»
    Nessuna risposta.
    Il rumore di cingoli in movimento, tuttavia, c’era ancora. Non c’erano stati boati improvvisi, né scoppi a bordo strada; quindi, il loro Hypaspista era ancora attivo. Tiber poteva essere stato colpito, oppure un bolt aveva centrato la sua attrezzatura.
    Ad un cenno di Markhairena, Ièn scivolò oltre l’uscio e prese a tagliare in laterale. Si ritirò dalla prima coltre di fumo, dardeggiando subito all’interno della seconda. I colpi dalla Ljud’ Domusva continuavano a cadere, confusi e a casaccio. Non avevano equipaggiamento per la visuale termica o notturna, il che avvalorava la tesi del loro essere un mucchio di soldatini lasciati a rallentarli.
    Sgusciò alle spalle d’un cassonetto per la raccolta del vetro e s’inginocchiò. Per prima cosa segnalò ai compagni che la via era sicura, poi s’impuntò a tenere sotto tiro il fumo e ciò che stava al di là. Attraverso un varco nelle cortine, vide che lo Hypaspista si trovava più avanti.
    Non era danneggiato, grazie all’Imperatore-Dio. Anzi, aveva avanzato di buon sprone, incrociando per la subordinata asfaltata una casa dopo l’altra. Ora stava ad almeno quaranta metri da loro, rivolto alla casa e con il resto della squadra al riparo dietro alla sua poppa.
    Alle spalle dello scudo balistico della mitragliatrice, Jason era chino e rabbioso, con le mani incollate ai doppi grilletti. Sparava raffiche intermittenti, corte scariche che esplodevano schizzi d’intonaco e polverizzati frammenti di cartongesso dove colpivano la Casa del Popolo.
    Ièn s’accigliò. L’antenna dell’unità vox di Tiber era stata tranciata.
    «Ecco perché non rispondevano...» mormorò a sé stesso. Un colpo accidentale doveva averla presa in pieno, tagliandola di netto dal processore centrale.
    Dalla discesa, sgranando ferroso sull’asfalto bagnato, proveniva un secondo, massiccio tremore d’acciaio. Ièn abbassò l’Accatran, sottraendo il grilletto al suo indice. Il nuovo arrivato s’incagliò contro il dosso di controllo, sprizzando una serpentina di fumo nero dai propri tubi di scappamento posteriore; un massiccio lamento d’acciaio riempì l’aria, scavalcando a grandi falcate anche la fucileria in corso.
    Scalpicciando, Markhairena e Hahàva raggiunsero Ièn presso il cassonetto, prendendo posizione al centro e sull’ala interna.
    «Tiber si è fatto fottere il Vox», gli riassunse.
    «Cos’è, è inciampato di nuovo in un albero?», ridacchiò Markhairena.
    «Eh...»
    Il tremore s’accigliò, facendo seguire ad un momento di silenzio un rialzo dei giri del motore. Il rullio della torretta si fermò con un timbro metallico e la prua del carrarmato scavalcò con agilità il dosso, portando lo scafo al di là.
    Era un Gladian MBT Carn-V Pattern, dal taglio basso e squadrato. Le placche di corazza reattiva lo facevano sembrare goffo e bitorzoluto, come una bestia punta da troppi insetti feroci, ma ora affrontava la discesa con agilità.
    E la torretta a cuspide era già rivolta verso la Casa del Popolo. In poppa batteva una sventolante bandiera dell’Imperivm, con l’Aquila Bicefala campale in centro, e una seconda insegna con lo stemma del Mondo e del Sector-Fortezza di Gladius.
    Markhairena alzò un pugno chiuso all’indirizzo del carrarmato, che completò la sua manovra con uno sbuffo di carburante esausto. Con la prua rivolta alla casa, infatti, riprese la propria avanzata; il suo stridere riempì la via, facendo da sottofondo al ballare delle sue placche blindate.
    La botola della cupola si sollevò con un cigolio.
    «Ehi, Elysia!» gridò una voce femminile, fatta roca da anni di fumi esausti. «Serve una mano?»
    Ièn abbassò lo sguardo, lieto che l’elmetto e il passamontagna gli stessero nascondendo il viso. Non aveva voglia di spiegare perché stava sorridendo.
    Sulla fiancata del loro carrarmato, con quanto più sprezzo della grammatica e dell’ordine dei casi propri del Haroniko, i gladiani avevano scribacchiato una frase. Mye druh! Nje bastrelja!
    Era così profondamente gladiano che non poteva che ridere.
    «Sì, grazie! Per caso hai portato degli amici?»
    «Un gruppo di terrucolis
    Dovevano essere quelli del 67esimo.
    «Russ nudo tra le puttane», bofonchiò Hahàva. «Dobbiamo anche fare da imane ai terrestri?»


    Kepopho: stim energetici in pillole. Non sono un'alternativa a mangiare e riposarsi, ma annullano i sintomi della stanchezza e della fame per diverse ore. Può darsi ci sia dell'eroina, rifinita in chissà quali modi, nel loro composto.

    Sarj: un altro rimasuglio sopravvissuto nella khoinè elysiana. Potrebbe derivare da sarge, o da sargeant. Lo pronunciano sar'jh.

    Imane: Hahàva viene da una regione molto tradizionalista e religiosa di Elysia, la Vallata dei Templi. Questo la porta ad usare alcuni dialettalismi che gli altri non usano, vuoi perché sono caduti nel dimenticatoio o perché hanno un tono da pescivendola al mercato. In questo caso, ha usato un antico vocabolo, sopravvissuto nell'Elysia attraverso i bed' di Jerushem, per dire mamma. La parola corretta sarebbe iman', mentre imane ha un tono più denigratorio. In pratica, ha chiesto se devono fare da mammine ai terrestri.


    Edited by dany the writer - 28/3/2024, 10:58
     
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