Valorchives

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  1. dany the writer
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    Verona, Imperium dell'Uomo

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    Capitolo I-F
    Ièn Cariad




    +++Segmentvm Obscvrvs
    Hera-Amiir Sector

    Espansione di Zaqqurava
    Sistema Stellare di Hervara

    Hervara IV-B, Mondo-Civilizzato
    Continente di Invyyere

    Portal Danòrra, 201 chilometri SO da Negemyn
    M42.Y022+++


    Lo Hypaspista si fermò sotto l’arcata. Un verso metallico riempì la galleria, sbattendo meccanico e ferroso contro le grigie pareti a scivolo sulla strada.
    In capo a pochi secondi, il mezzo corazzato riportò l’obice in torretta ad alzo zero. I freni d’ancoraggio lo fissarono in posizione, scandendo una profonda nota contro il silenzio che regnava al di là dell’uscita; dai suoi tubi di scappamento fuoriuscì una duplice colata di vapori di Promethium, stinti nella controluce delle torce pubbliche, issate in file gemelle presso le pareti d’uscita.
    Perlomeno c’era ancora corrente, lì.
    Aggiustando la presa dell’Accatran, Ièn lottò per reprimere uno sbadiglio. Sbatté un pugno sulla propria coscia e si risollevò, fiancheggiando la sinistra dello Hypaspista a testa china. Si mantenne stretto presso il corrimano, dardeggiando con gli occhi ai lati.
    Un’imboscata li avrebbe visti esposti sulle ali e con solo una via di ritirata. Dovevano sgomberare quel punto vulnerabile il prima possibile.
    Appoggiò una mano alla spalla del sergente Quarta per avvisarlo della sua presenza. Impuntandosi su di un ginocchio, portò il fucile a poggiare sulla sbarra inferiore del corrimano e spaziò lungo un’arcata che andava dalle Otto Notturne alle Ore Tre. Movimenti brevi e controllati, proprio come gli era stato insegnato a Camp Martes. Brevi e controllati.
    La spianata esterna si allungava tra due rostri di moduli abitativi, a prima vista deserti. Molte autovetture erano state lasciate nei loro stalli, paralleli alle abitazioni. La linea destra delle case s’interrompeva prima della sua controparte, figurando un negozio di alimentari con pareti in legno e porte a vetri.
    Più avanti, piccolo anche all’interno del reticolo di tiro, un edificio a tre piani dominava sulle case. Giaceva appena sulla sinistra, con un viale alberato che portava ad un colonnato d’ingresso.
    Sopra all’architrave dominava una scritta in Haronico, ma dal balcone pendevano due bandiere traditrici. Una era quella del Dominio Severan, mentre l’altra era una bandiera aurelica a colori inversi. A vederla, Ièn carezzò il grilletto: era lo stemma che usava la soldataglia di Ioannìs.
    Forse si erano barricati all’interno, oppure avevano voluto segnalare il loro possesso dell’edificio alla povera cittadinanza di Hervara. Quale che fosse la loro ragione, la presenza delle bandiere era una prova della loro possibile presenza in loco.
    Ammesso che non fosse una trappola...
    Segnò al sergente Quarta la posizione di quell’edificio e tornò a tenerlo sott’occhio. Era alto dodici metri per tre piani, con un solaio in cima. C’era un rosone rosso, blu e verde in centro all’angolo acuto delineato dal tetto.
    «Ricevuto», sussurrò Quarta, affiancandolo. Lo batterono per diversi attimi, scandagliando la sua facciata in cerca di varchi o angoli di tiro. «Che dice la scritta?»
    «Ljud’ domusva.»
    «Sii meno astropatico, se ti è possibile...»
    Gli venne da ridere, staccando l’occhio dal mirino. Certo, sì. Il sergente aveva pienamente ragione. «Uhm, Casa del Popolo.»
    «Ergo quod est?»
    Anche lui doveva provare della stanchezza, perché a Chernobasa ne avevano viste altre di Case del Popolo. Più d’un paio, a dir la verità. Erano sia residenze ufficiali che locali caserme delle forze dell’ordine, fossero queste militi urbani o vigili del fuoco. «Ritrovo ufficiale, signore. Pompieri, guardia locale...»
    Forse avevano una piccola cisterna privata nel sotterraneo. Avrebbero potuto approfittarne per fare il pieno allo Hypaspista.
    «Chiaro. Tracce del nemico?»
    «Nessuna.» Per ora. Se si stavano nascondendo, lo stavano facendo bene. Si spostò dalla sua sinistra alla destra, scendendo più in basso. Il corrimano proseguiva ancora, fermandosi agli inizi dello scivolo, ma al suo sfociare nella strada sarebbe stato ancora più vulnerabile.
    Si fermò, ripristinano in pochi attimi la sua posa. Sia le spalle che le scapole gli dolevano, pulsando pian piano sotto le bretelle dello zaino tattico. Chiuse gli occhi, abbassando la testa. Solo un secondo, non gli serviva tanto di più. Un momento per riprendere fiato e concentrazione, poi...
    Il sergente gli allungò una mano sulla spalla, dandogli una solida pacca. Ièn sussultò, agguantando l’astina dell’Accatran.
    «Oy, riguardo a prima: sei stato bravo, Ièn.»
    Accettò il complimento del sergente Quarta con un cenno del capo, senza distogliere il proprio sguardo dall’aprirsi della strada subalterna. Riportò il puntatore sull’ingresso dell’alimentari, battendolo dal basso verso l’alto. Lì sarebbero stati molto scoperti, ma poteva esserci un retrobottega da controllare.
    Un altro sbadiglio lottò per venire a galla, costringendo Ièn a deglutire. Strabuzzò gli occhi, cercando di sbattere via quel sentore di stanchezza e torpore. Da quanto tempo non dormiva? Le operazioni di combattimento a Chernobasa li avevano tenuti alzati per ore e ore, se non giorni interi, poi era venuto l’ordine di lanciarsi in avanti e inseguire i Severan in ritirata.
    Quindi... era un giorno? Di più? No, era almeno un giorno. Anzi, sì. Era di sicuro più di un giorno, forse già un dì e mezzo, se non due.
    Oppure no?
    «Non ti deconcentrare.»
    «Colpo di sonno...»
    Il sergente Quarta non replicò; rimase in silenzio, preso dal pattugliare la strada subalterna da dietro la ringhiera. Ad un certo punto abbassò il suo las-fucile e aprì un taschino dell’anti-schegge, dal quale trasse un tubetto cromato. Lo stappò, facendo rotolare fuori una piccola pillola rossa e bianca. Gliela porse mentre riprendeva il suo piantone.
    «Prendi e butta giù.»
    Pochi attimi dopo aver ingollato la pillola, Ièn sentì i muscoli del suo corpo contrarsi con uno spasmo ferreo; strinse i denti, temendo di spaccarseli gli uni sugli altri, e allontanò l’indice dalla scocca del grilletto per non farsi partire un colpo accidentale.
    Rogal Dorn, odio queste schifezze! Lo spasmo durò dieci secondi e poi la sua presa cominciò a scivolargli di dosso. Strabuzzò di nuovo gli occhi, mettendo a fuoco la strada. Le Kepopho erano tremende; il calcio iniziale sembrava quello di un crampo, ma esteso a tutto il corpo. Dopo che era passato, il loro effetto energizzante proseguiva per ore e ore, posticipando qualsiasi sensazione di stanchezza o esaurimento. Ma non le faceva scomparire.
    Per qualche tempo, erano messe a riposo. Sarebbero tornate più tardi, la loro intensità maggiorata da qualsiasi altro sforzo avesse da compiere.

    Rimasta a coprire la retroguardia, Zhì era sulle scale alle loro spalle; occhieggiò ai resti del servo-teschio e ci si accovacciò davanti. «Era proprio necessario spappolarlo così?», esordì sul canale a onde corte, animando la sua icona all’interno dello HVD.
    Ièn esalò un sospiro. Riaprì la sua parte della comunicazione con un colpetto degli occhi: «La prossima volta lo tiro giù con uno schiaccia-mosche, ey?»
    «Ah-ah-ah.» La compagna di squadra s’issò in piedi. «Guarda che non posso recuperare niente da questi frammenti.»
    A quel punto, Ièn alzò gli occhi al cielo. Che disdetta, davvero. «Facci pace e chiudi la bocca, allora.»
    Hahàva lo affiancò, disponendosi su di un ginocchio e incassando il Merovech addosso allo spallaccio. «Ce l’ha con me, Libri.»
    «Ma chi cazzo ti ha chiesto niente?»
    Markhairena allungò due dita al fondo della strada, pulsando tre volte il gesto. Rafforzando la sua presa sull’Accatran con una mano avvolta all’astina del las-fucile, Ièn si slanciò in avanti.
    Tagliò a sinistra attraverso lo spiazzo, portandosi al fianco di un cassonetto tinto d’arancione e blu. Quasi ci sbatté contro, tallonandolo con la spalla libera. Rivolse un cenno di Via Libera ad Hahàva, quindi prese il fianco del cassonetto e spianò l’arma.
    Lo Hypaspista ruggì un tumulto di motori al promethium e scalò di marcia, incrociando a lento regime lungo la discesa. Si portò dove la discesa incontrava la strada e sterzò, alzando un gemito meccanico che rantolò in lungo e largo nel silenzio. La sua manovra in retromarcia lo portò a rivolgere la prua, e l’obice, alla figura della Casa del Popolo.
    Ancora nessun movimento sospetto lungo l’asse occidentale. Si snodò da un lato all’altro, in attesa che qualcosa o qualcuno uscisse allo scoperto.
    Trasalì al cigolio di un uscio che si apriva. S’irrigidì contro il fianco del cassonetto, infilando il corto e compatto calcio dell’Accatran sotto l’ascella e portando il dito alla scocca di tiro. Sistemò la propria presa, impuntandosi contro il proprio spallaccio; salendo in ginocchio, si orientò all’indirizzo del suono che aveva appena attraversato la strada.
    C’era una porta aperta, adesso. Era l’ottava sulla linea destra, quella interna, dal delta della galleria. Sulla soglia, ora, pendeva timidamente una figura.
    «Abbiamo una visuale.»
    Il Vox di squadra tacque per un lungo secondo e la voce del sergente Markhairena lo seguì: «Ostile o amico? Che vedi?»
    Ièn allineò il destro al puntatore e ingrandì sulla figura temeraria, trovandosi a guardare un uomo stempiato e grigio. Era un locale. Si esponeva per metà da fuori dalla porta.
    «È un civie. Uomo, cinquantina.» Se non fosse stato per qualche lineamento più Haroniko che Elysiano, avrebbe potuto dire che somigliava molto a suo nonno. Sul suo viso c’era la stessa espressione di chi ne aveva viste un paio di troppe, ma sapeva che c’era dell’altro in arrivo.
    Aurelios scosse il capo. «Signore, resti al riparo!»
    Ubbidendo, l’uomo scomparve dietro al suo uscio. Ièn non rilassò la presa sull’arma, aggiustandone l’appoggio sulla spalla per essere più comodo. In contrasto al comando che aveva ricevuto, il cinquantenne riapparve sulla soglia.
    Ora, stretta tra le mani, aveva una bandiera dell’Imperivm. Niente più che un rettangolino di stoffa con i colori tradizionali, che in centro mostravano l’Aquila Bicefala della Super Sacra Terra e del Pater-Mondo Forgia Marte. La spiegò davanti a sé, scuotendola con molto vigore.
    «Dorn, si sta mettendo a rischio...», sussurrò Jason dalla cupola. Il capocarro allineò la brandeggiabile perché fronteggiasse la strada, quindi disinnescò la sicura.
    «Ièn, digli di tornare in casa!», scandì il sergente Markhairena. «Così finirà per farsi ammazzare, Sacra Terra puttana...»
    Dopo aver controllato i propri angoli, Ièn sbracciò all’indirizzo del locale. «Paan, zrasse! Yiite u v’domu! Je vnimanyy!»
    «Soldatii!», fu la replica che gli diede. Nella sua voce c’era un calore, un senso di sollievo, che Ièn sentì sulla propria pelle. Era felice, anche se non riusciva a mostrarlo, di vederli davanti a casa sua. «Varvarii je itame! U’ Ljud’ Domusve
    «De?!»
    «Taam!», insistette, puntando lo sguardo alla Casa del Popolo. «Premochi!»
    «Ièn?»
    Il tiratore scelto chiuse gli occhi, respirò attraverso il passamontagna e impuntò il las-fucile contro lo spallaccio, riportando il puntatore all’altezza della Casa del Popolo. «Dice che gli stronzi si sono ritirati nella Casa del Popolo.»
    Il Vox ad onde corte calò nel silenzio. Una sciabolata ferrosa attraversò la strada, con Jason che orientò la brandeggiabile sull’edificio. «Allora azzeriamoli.»
    Vide Quarta affiancare Markhairena.
    «Non credo che il nostro arrivo gli sia passato inosservato. Se non ci è arrivato un colpo di contro-carro, può essere che non ne abbiano.»
    Oppure stanno aspettando...
    Aurelios gli fece cenno di allungarsi dal civile. Ignorando le proprie spalle indolenzite, Ièn spiccò uno scatto verso la porta aperta. Si barricò dietro un cassonetto sull’altro lato della strada, aspettando una scarica di fucileria nemica che non arrivò.
    «Signore!», esordì all’indirizzo dell’uomo. «Dove sono? E chi sono?»
    «Si sono barricati lì dentro, ma il loro carrarmato è senza carburante!»
    L’aveva detto con singolare soddisfazione. «Fermo?»
    «Sì, morto e fermo. Gli abbiamo dato acquavite invece di carburante.»
    Dovette controllarsi per non finire piegato in due dalle risate. Comunque, abbassò la testa e lottò contro gli spasmi d’ilarità. «Aurelici o Severii?»
    «Aurelici, i traditori! Sono venti, o qualcuno di più
    Con il cassonetto ancora a coprirgli le proprie spalle, Ièn si volse alla sua squadra. Era rimasta disposta dietro lo Hypaspista, che affrontava la strada di prua, e al di là del corrimano interno. Dalla loro posizione alla Casa del Popolo, la linea di tiro era obliqua, ma non troppo svantaggiosa.
    Ma se l’uomo non stava mentendo, e pareva onesto, avevano un grosso punto a loro favore: gli aurelici non potevano muovere il loro mezzo corazzato, e poteva darsi che volessero prendersi il loro per poter scappare via, o fare un pieno d’emergenza.
    Se avessero avuto armi anticarro, non era loro intenzione usarle.
    Di contro, avrebbero sparato a tiro alzato. Non era la maniera più precisa e funzionale, ma potevano cavare un ragno fuori dal buco. Riferì quanto gli era stato detto dal civile e le onde corte esplosero di risate e sbuffi trattenuti.
    Aurelios si schiaffeggiò la coscia. «Per l’Imperatore, amo questa gentaglia!» Alzò un pollice all’uomo, che rispose con entusiasmo. «Tantu, fantastico! Horoshi! Horoshi, tjak?»
    «Qarosho», lo corresse Ièn.
    «Non rompere i coglioni.»

    Il motore del loro Hypaspista si rianimò con un ruggito sommesso. Scalò in avanti, sbattendo i cingoli contro la strada asfaltata. La squadra si riallineò alle spalle della poppa, stando china per non esporsi al tiro nemico e con le armi pronte a fare fuoco.
    Come il mezzo prese ad incrociare, Hahàva e Markhairena raggiunsero Ièn presso il cassonetto. Si schierarono ai suoi lati, il tempo necessario ad un velocissimo controllo delle proprie armi. Fatto un segno di Via Libera, Markhairena si slanciò alla porta aperta.
    L’uomo si fece da parte per farli entrare.
    «Permesso...», mormorò il sergente, abbassando il capo per non sbattere contro l’architrave. La casa s’apriva sul salotto, con un singolo apparecchio televisore montato su di un mobile in syntho-legno. Al di là di un divanetto giallo e qualche tappeto fissato sulle pareti, la sala non aveva molto da offrire né agli ospiti né ai suoi abitanti.
    L’uomo li precedette, conducendoli ad una porta di legno. Dava sulla cucina, modesta tanto quanto il salotto: un piano cottura con tre fuochi a gas e un tavolaccio di legno, con delle basse panche attorno. Ièn si spostò a destra per lasciare passare Hahàva, che entrò come retroguardia.
    «Venite, venite!», ribadì il cinquantenne. In cucina c’era il resto della sua famiglia, assiepata dietro un piccolo frigorifero. Una donna della sua stessa età e due bambini, forse undicenni. Fecero il segno dell’Aquila Imperiale a vederli.
    La spia di statvs sul frigorifero, notò Ièn, era spenta. Non avevano, o non ricevevano, abbastanza corrente per mantenerlo acceso.
    A vederli, quella che doveva essere sua moglie giunse le mani in segno di preghiera. Quasi si avventò su Hahàva, stringendole le braccia. «Gvardya, Gvardya!»
    «Uhm, grazie signora, ma se non mi lascia...»
    «Mia moglie, Tanua!»
    Ièn si mosse per guardare l’uomo faccia a faccia. «Sì, signore. Ci serve aggirare la Ljud’ Domusve. Il resto viene dopo, d’accordo?»
    Come punto dalle sue parole, il civile annuì. Li guidò ad una porta a vetri e la sbloccò, facendosi da parte per lasciarli passare. I loro passi li portarono ad un cortile, attraversato da fili del bucato. Sgusciarono sotto ai panni, scartando a sinistra e arrivando a ridosso d’una staccionata. Markhairena la scavalcò d’impeto, catapultandosi nel cortile a fianco.
    Con Hahàva a chiudere la fila, Ièn lo seguì.
    Trovarono riparo dietro un’ara per barbecue, inginocchiandosi sul prato grigio-verde. Aprirono i serbatoi dei lanciagranate montati sotto le canne dei loro las-fucili, inserendoci dentro delle bombe a frammentazione e un’abbagliante. Si staccarono, aggirando l’ara per allungare all’altro filo della staccionata. Di nuovo, Markhairena aprì la strada scavalcandola.
    Sull’uscio interno c’era un civile, una donna in pantofole. Gli fece segno di tacere e poi allungò l’indice al profilo della Casa del Popolo.
    «Ci sono aurelici, laggiù.»
    Aveva un buon Gotico Basso.
    «Possono vedere fin qui?»
    Lei incassò la testa nelle spalle: «Non lo so. Scusate...»
    La scavalcarono, continuando il loro incrociare in diagonale attraverso i cortili. Si ritrovarono presto in un giardino più largo degli altri, dotato d’una piscina ormai asciutta. C’era solo un dito d’acqua sul fondo, ingiallita e fetida.
    I tre affiancarono la siepe di fondo, tagliando subito sull’interno per tornare dietro la poca copertura offerta dai fili del bucato. Molti dei panni stesi, in quel cortile e nel prossimo, erano teli e coperte. Non avrebbero fermato un colpo, neanche da lontano, ma li potevano coprire agli occhi del nemico. Qualcosa era, pur sempre, meglio di niente.
    Tallonò il sergente Markhairena, incrociando per due consecutivi giardini. Al terzo si divise con Hahàva sulle ali, posizionandosi dietro ad un melo intirizzito dalla bassa stagione. I frutti non erano ancora maturi, ma alcuni erano già stati colti.
    Non era difficile cogliere il perché.
    Scandendo una fitta serie di comandi gestuali, Markhairena gli ordinò di avanzare a ridosso della staccionata e guardare al di là.
    Aveva scorto qualcosa, ma prima d’intervenire voleva una conferma. Ièn raggiunse il sito indicato in pochi passi, procedendo il più radente al suolo possibile. Questa volta c’era un cancelletto, in legno e con infissi di ferro battuto, che apriva sul giardino vicino. Si accostò ad esso, avanzando carponi fino alla serratura.
    Non era stata chiusa a chiave. Si sporse per guardare al di là, imbracciando l’Accatran: il giardino difronte a lui, attraversato da una mezza dozzina di fili del bucato, sfociava sul patio di una casetta a schiera non dissimile da tutte le altre.
    La porta sul retro, tuttavia, era aperta.
    «Te lo dico io!», disse la voce di una ragazza. Era affettata, e non aveva l’accento dei locali. Anzi, il timbro era quello aurelico. «I severan ci hanno abbandonato qui»
    «Puttanate! Non lo farebbero mai.»
    Ièn segnò al sergente due presenze all’interno. Chiuse la sinistra, battendola una sola volta sull’erba del giardino a stampo alto terrano.
    Ostili.
    Erano due donne.
    «Ah, sì? E perché ci hanno detto di aspettare qui, allora?»
    «Siamo una retroguardia, rincoglionita. Ci diranno quando arretrare. E comunque, non abbiamo carburante per il Chimera.»
    Ièn chiuse gli occhi, strizzandoli dietro al visore. I maledetti avevano un Chimera. Faccia a faccia, se avesse avuto abbastanza carburante da uscire allo scoperto, avrebbe potuto tritare il loro modesto Hypaspista. In corazzatura non erano particolarmente diversi, ma se era un Kronus-Pattern…
    «Maledetti bastardi!», urlò la seconda donna. La sua voce, sempre aurelica, aveva un tono più alto. Forse veniva dall’interno del Sector Korianìs. «Stupidi, non avete neanche una bottiglia di carburante, qui?! Svuotate la vostra macchina!»
    Ièn controllò lo stato della sicura. Si ricordò di averla reinserita quando erano entrati, e così la disinnescò spingendo in basso la levetta di blocco alle lenti di focalizzazione. Markhairena e Hahàva sgusciarono al suo fianco, sistemandosi presso l’altro capo del cancelletto.
    Dall’abitazione provenne un rumore di stoviglie frantumate. Markhairena annuì e spinse in avanti lo sportello, calando un passo all’interno del giardino; seguendolo, Ièn accennò ad un tavolo da pranzo sistemato all’aperto, sotto un grosso ombrellone. Ci sgusciò accanto, appoggiando l’Accatran al piano. Le finestre acccanto alla porta sul retro non gli offrivano alcuna soluzione di tiro. Scosse la testa per segnalare quel dettaglio e tornò, carponi, ad avanzare.
    Risalì fino al lato destro della porta, affiancandolo con la spalla. Hahàva si portò subito dietro di lui, tolse la sicura al suo Merovech-Pattern d’assalto e scandì tre secondi con dei battiti del piede. Avanzando lungo il dato destro, il sergente Markhairena strappò un’abbagliante dalla propria cintura e la palleggiò contro il palmo della mano. Indice e medio erano già stretti alla cintura di sblocco.
    Schiantò il suo piede contro l’uscio, che rinculò all’interno. La forza con cui lo colpì la sganciò dai cardini e sbatté con forza contro la parete. Strappò la cintura alla granata abbagliante e la buttò all’interno, ritraendosi prima che una mezza salva di fucileria potesse inchiodarlo a terra. Ièn distolse lo sguardo, puntandolo ai propri piedi.
    Il lampo baluginò, rovesciando all’interno della cucina una bolla di luce bianca e un’onda sonora assordante e cieca. Sgusciò dentro un secondo dopo, mentre la visiera del suo elmetto si polarizzava per difendergli gli occhi dall’abbaglio.
    Il suo puntatore dardeggiò all’aurelica più vicina e tirò il grilletto; tre baluginii rossi esplosero dal suo Accatran, tutti in rapidissima, semi-automatica successione. Mosse l’arma dal basso verso l’alto mentre sparava, centrando il bersaglio al tronco, al collo e alla fronte. L’aurelica stramazzò a terra a corpo morto, sbattendo contro il piano cottura e rovesciandosi sul pavimento. La sua compagna, accecata, aprì il fuoco a kantrael spianato, esplodendo una raffica disorientata e feroce. Super-sonici schiocchi di frusta echeggiarono tra le pareti, seguiti a breve distanza da violenti scoppi di scintille.
    Hahàva si tuffò in avanti. Il suo gomito raggiunse l’aurelica sul mento e, carica del proprio impeto, picchiò a terra con lei. S’impuntò piazzandole un calcio sulla gola e spinse in basso, strappando alla nemica un gorgoglio disgustoso e confuso.
    Affiancando la compagna, Aurelios esplose un singolo colpo; l’aurelica smise subito di rantolare e sbracciarsi, fermandosi riversa sul pavimento.
    «Azzerati», riportò sulle onde corte, schioccando un pugno in alto per comandare lo stop all’operazione. Ièn batté la stanza, a caccia d’altri ostili. Rannicchiati contro un caminetto vuoto, tre locali tremavano. Dai loro occhi, colpiti dall’abbagliante, colavano lacrime.
    Hahàva si risolse in piedi, fece un passo indietro e poi sferrò un calcio al viso della guardia aurelica morta ai suoi piedi. Tornò presto a imbracciare il Merovech, abbassandolo perché non fosse a portata dei civili. Il salotto era pieno di stoviglie e bottiglie rotte.
    «Ièn?»
    Annuì. Sapeva cosa doveva fare. Si accostò ai tre civili, parando una mano all’altezza della propria spalla per dargli idea che non fossero ostili. «Sssshit. Calmi.»
     
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