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    Bello! Bello! Bello! :clap: :clap:
     
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    Grazie, Laurens!

    Il tuo supporto è molto importante per sostenere il morale dei nostri eroici ragazzi impegnati nelle prime fasi dell'Operazione Militare Speciale!
     
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    Vediamo come se la cavano i ragazzi con il Devilfish :huhu:
     
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    Direi con i javelin cioè gli NLWA cioè i Kometar


    Volevo assolutamente dire i Kometar.


    O forse no? Vedremo nel prossimo pezzo!
     
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    Ièn Cariad




    Or’Olan ‘Blast
    Or’Olan Aereo Ancoraggio
    Quadrante Horholandius, NW
    M42.025, Terzo di Gennaio


    Brevi grida super-soniche passarono sopra di loro. Sfuriarono da qualche parte verso il fronte occidentale del quadrante, borbottando un nastro di scoppi ravvicinati. Gli infissi delle fiancate e le corone degli oblò sussultarono.
    Hahàva alzò la testa. «Nostri?»
    Lo sbarramento del Devilfish non era ancora tornato. Che non volesse sprecare ulteriori munizioni? «Aha-ha. Nostri.»
    Non era sicuro. Si spostò dall’accesso sventrato, accucciandosi dietro alla parete. Le ultime eco degli scoppi si dispersero nella grandinata a bassa intensità delle sparatorie tra bordo pista e bordo pista; se quelle non si erano fermate, i razzi non erano stati lanciati nella loro direzione. Non potevano essere stati a testata termica, i loro scoppi erano più un brontolio sommesso che saliva e scrosciava. No, dagli scoppi poteva dire che erano stati a carica solida.
    Forse delle testate Krak. O degli H-K a medio-corto raggio.
    Non aveva importanza. D’abitudine avvicinò la mano al fianco dell’elmetto, cercando una cuffia auricolare che si ricordò non poteva raggiungere. Che stupido!
    Agganciò il canale dell’unità con un dardeggio degli occhi e l’aprì in sola modalità di ricezione. Se l’APC/VCI era ancora in campo, poteva individuare le loro trasmissioni.
    «Sarysse, indietro! VCI in campo!». Era la voce del sergente Aurelios.
    Ah, merda. Be’, perlomeno non era una Hammerhead!
    «Abbiamo una visuale.» A rispondergli fu Zhì. «Drone in campo, stiamo tracciando.»
    Ièn soppesò il Kometar drappeggiato alle sue spalle, palleggiandolo contro il palmo della mano. Anche Hahàva ne aveva uno. S’inginocchiò e, inforcando il calcio dell’Accatran sotto l’ascella, pressò una mano sul pavimento di linoleum.
    «Ci muoviamo o no?»
    «Aspetta.»
    «Mmh.»
    Condotto l’indice della sinistra alla scocca del grilletto, Ièn alzò lo sguardo e mantenne la mano destra ferma sul pavimento. A vederlo da lì, non era affatto uno shuttle T’au. Non aveva i dettagli di un cargo e il ponte dei passeggeri più ampio che lungo. Lusso anziché capacità di carico. Il linoleum era azzurrino, su interni color panna chiara.
    Vicino al terzo oblò di sinistra dalla cabina c’era un trittico di sedili in pelle, arrangiati davanti ad un basso tavolino da caffè.
    Dei rimbrotti risuonarono rapidi. Ruggirono da nord-est e fischiarono non lontani dallo shuttle, esplodendo a contatto di chissà cosa.
    Il linoleum tremò.
    Chiamò l’attenzione della compagna d’armi con uno schiocco della lingua, le indicò il pavimento e portò l’indice e il medio davanti alla sezione inferiore dell’elmetto, dove sarebbero state le sue labbra. Con un singulto di giberne ed equipaggiamenti, Hahàva s’accucciò, impuntandosi sulla destra per non sbilanciarsi e cadere in avanti.
    Fermi e zitti.
    «Ripeto, Devilfish! Ore Venti, traverso Venticinque!», tuonò la voce del capitano Ben Elyssa sul canale di Reparto. «Ore Venti, traverso Venticinque! È in retro!»
    D’istinto, Hahàva tagliò lungo un’immaginaria linea retta con la sinistra davanti a sé e Ièn le rispose con un cenno d’assenso. Volume isolato. Qualcuno poteva sentirli. Con un lampeggio degli occhi ridusse l’ampiezza della ricezione e le fece segno di Via Libera.
    «Qui Vang-Primus A; ricevuto per Devilfish. Status, non abbiamo una visuale pulita! Alleati sulla linea di tiro, riposizionamento!»
    «Vang-Primus A, siete sulla sua linea di tiro.» Oh, il capitano era preoccupato. «Spostatevi subito!»
    «Copiato, in movimento!» Due secondi di statica sfolgorarono lungo la linea di comunicazione, disturbandola con una cascata di gracidii elettronici. «Fuoco di soppressione! Siamo in movimento, ci defiliamo.»
    Ièn staccò la destra dal pavimento e alzò indice, medio e anulare. Con il pollice schiacciò il mignolo contro il palmo. Attese che Hahàva annuisse al segnale, poi tenne alzato solo l’indice. Pugno chiuso, un battito sullo spallaccio, mano aperta.
    Unì il polpastrello dell’indice a quello del pollice.
    Corazzato ancora in circolazione. Sa che siamo qui. Osserva, non spara.
    La compagna d’armi si riscosse in ginocchio. Lasciò l’Accatran a drappeggiarle davanti al petto, quindi punse il palmo della sua sinistra con le punte della destra. Chiuse entrambe le mani, le riaprì e si batté gli avambracci una volta.
    Era una domanda. “Dici che siamo inchiodati?”
    Con la sinistra, Ièn tamburellò sul proprio spallaccio destro. Portò indice e medio al visore dell’elmetto e poi a puntare gli oblò. “Verifico.”
    Hahàva recuperò l’impugnatura dell’arma e gli fece cenno di andare.
    Mmmh. Ièn si sganciò dalla parete, quasi gattonando fino all’oblò più vicino. Lo prese da lato, risollevandosi pian piano sulle ginocchia. I legacci dinamo-resistenti delle protezioni balistiche gli stringevano contro le rotule.
    Abbassò l’arma perché non spuntasse al di là del vetro.
    Nessuno sparo volò nella sua direzione. Non li avevano individuati? Si ritirò dall’oblò, prese un respiro profondo e lo buttò fuori dalle narici.
    Ancora nessun colpo.
    Segnò tre secondi con la mano libera. Il freddo dell’esterno era svanito, sostituito da un calore accogliente e soffuso. Lo shuttle aveva la sua atmosfera pressurizzata. Hahàva contò per lui, scandendo quei tre secondi a terra con la mano, quindi gli segnalò che poteva procedere.
    Sul vetro danzavano riflessi d’esplosione e lingue di fuoco. Al di là, verso la banchina interna dell’Horholandius, lo scontro si stava intensificando. Era tutta opera del Devilfish o erano spuntati dei rinforzi?
    «Non rompere il vetro.»
    Superstiziosa. «Lo so.»
    Si sporse. Radi spari laser s’incrociavano ad altezza d’uomo con fucileria ad impulsi, sprigionando scoppi di scintille e scariche elettrostatiche presso il guard rail. C’erano dei Guerrieri del Fuoco, laggiù. Rimasugli della squadra attaccata dal Sergente oppure erano appena arrivati dei rinforzi? Li inquadrò con il selettore dello HUD.
    Il contatore salì a otto.
    No, erano troppi per essere quelli di prima. Il Devilfish doveva averli sbarcati. Si trasse indietro, riprendendo la parete per avere dalla sua della copertura che potesse nasconderlo. Lasciò l’impugnatura dell’Accatran alla sola sinistra e alzò la destra a palmo aperto. Un battito, poi tre dita alzate. Hahàva scosse la testa, inclinò la propria arma e controllò il contatore dei colpi.
    «Forse siamo inchiodati.»
    Lei ridacchiò sottovoce. «Bloccati sull’obbiettivo, uh?»
    «Ya-aha...»
    «Oy, dh’ranya...»
    Tornando chino, Ièn riprese fiato. A pensarci bene, quella era la prima sosta vera e propria che facevano dall’inizio dell’assalto.
    Dal tavolino da caffè cadde a terra una abat jour cristallina; si frantumò all’impatto, riempiendo l’andito tra i sedili di frammenti.
    «Ma porc...» Hahàva fece per spianare la sua las-carabina. Ièn batté un colpo sul pavimento e lei si fermò, mezza girata e un po’ storta. Si rassettò con un borbottio sottovoce, squadrando torva i frammenti.
    «Non è uno specchio. Stai serena.»
    «Che ne sai?» Controllò lo stato di carica della sua arma, poi si accucciò meglio. Con la tracolla che le penzolava davanti, sollevò l’Accatran per tornare a mantenere sotto tiro il corridoio. «Porta male.»
    «No, non lo fa.»
    «Te lo dico io che lo fa, Libri.»
    OK, come vuoi. Ièn si staccò dalla parete, sgusciando in avanti di qualche metro. Zigzagò bocconi, con lo zaino tattico che gli pesava sulle spalle. Superò la soglia del portellone alla sua destra e lo controllò, riportando l’arma ad altezza d’uomo e T’au. Nessun movimento sulle scale, nemmeno un ticchettio di zoccoli.
    Slittò al riparo d’uno dei sedili. Appoggiò lo zaino contro la base e nello stendere la gamba destra, calciò via un drappo di pelle.
    Che gran lusso. «Non mi sembra un ‘hauler
    «Già.» Tenendo il fianco sinistro, Hahàva si portò alla sua stessa altezza. Si sporse di nuovo sul corridoio, poi si girò con un frastuono di giberne e sventagliò dal portellone di sinistra a quello di destra. Rimase fissa un secondo a scrutarli, l’arma spianata e l’indice sul grilletto.
    Trasse un breve sospiro e calò l’arma perché puntasse il pavimento, togliendo l’indice dalla scocca del grilletto. Alzò il pollice sinistro. Via Libera. «Troppo lusso per uno yatmòs
    Innescò la sicura con un tocchetto del pollice e segnalò ad Hahàva che si stava per muovere in avanti. Lei s’irrigidì, inforcando la las-carabina sotto l’ascella. La superò con una volata bassa e china, accucciandosi presso uno dei sedili davanti al tavolino. Lo scalpiccio dei suoi stivali disperse i più vicini frammenti di cristallo.
    C’erano delle tazze sul tavolo. Batté tre volte con le nocche sul linoleum, lasciando che Hahàva avesse il tempo per trovarsi in grado di soccorrerlo se qualche colpo l’avesse raggiunto. Con lei alle sue spalle, riparata dietro un sedile e bassa, Ièn si allungò al tavolo.
    Infilò il dito nel caffè. Era tiepido. Un vasetto di zucchero stava in centro al tavolo, accanto ad una bassa pila di spuntini incartati. Ci rovistò in mezzo, trovando una superficie solida e fredda sotto di loro. Si sbracciò in avanti, spazzandoli tutti sul pavimento.
    Era un tablet, bordo bianco su sfondo tutto nero.
    «Laût?», sghignazzò Hahàva arraffando una manciata di snack dal pavimento. «Oy, hanno delle butyrumoi digitas...»
    Ièn prese il tablet e se lo rigirò qualche volta tra le mani. «No, solo un Nykedas.»
    Lo agitò un momento, poi toccò la runa in centro al bordo basso e il monitor s’illuminò, presentandosi con un blocca-schermo a combinazione. Al di sotto, fatta più opaca dal retroilluminato trillare del blocco, c’era come sfondo una donna in costume da bagno bianco e verde. Era biondiccia, e sorrideva in camera. Era una foto presa con intento.
    Però, è bellina…
    «Dici che c’è l’ha una cartella dei compiti per casa?»
    Impegnata a strafogarsi con la butyrma digita, Hahàva strinse le spalle. «Non l’ho capita, Libri
    «Mmh.»
    «Status sul VCI; è andato in retro tra i due hangar, Ore Venti su Traverso Quaranta. È fuori gittata», comunicò la voce del capitano, strappando a Ièn un sobbalzo. Hahàva tirò giù in tutta fretta lo scalda-collo e riagganciò il segmento inferiore dell’elmetto, deglutendo a forza. «A tutte le unità in campo; denunciate la sua posizione appena è in visuale.»
    Aveva comunicato via Vox ampio, quindi Mâhrat era con lui. Doveva averlo raggiunto nei pressi dell’hangar, oppure una volta che erano usciti fuori dallo stesso. Ad ogni modo, il capitano non doveva essere molto lontano dallo shuttle.
    Era meglio così; potevano avere supporto se questo fosse stato necessario...
    Occhieggiando il tettuccio, Ièn sistemò la presa degli occhialoni sulla calotta dell’elmetto. Sì, quel velivolo era fin troppo di gran classe per essere di qualche graduato della Casta dell’Aria. Doveva essere uno shuttle privato, ma con le autorizzazioni per atterrare e decollare dall’Horholandius.
    Gli snack, il caffè tiepido e il tablet non erano di certo roba del proprietario. Anzi, era probabile che appartenessero all’equipaggio di bordo. E che questo non fosse andato tanto lontano.
    Potrebbero ancora essere a bordo...
    Dati quei punti, il ‘log di volo sarebbe stata una preda bellica di scarso valore, ma di sicuro interesse per quelli della Logistica. Valeva la pena trovarlo.
    Le fece cenno di coprirlo da basso e si rimise in piedi, saettando chino verso l’abitacolo. Il portellone d’accesso era rettangolare. Una manifattura che proprio gridava di non essere T’au. Lo spinse più in fondo con il gomito, ricavando un’apertura sufficiente a farlo passare. Raccolse la tracolla con la destra per non averla a ciondolargli davanti e sgusciò attraverso il varco.
    Si fermò dopo un passo e mezzo. Fronteggiando i sedili, tre e dal profilo elegante e curvilineo, disegnò un semicerchio da sinistra verso destra. All’esterno dell’abitacolo gli spari risuonarono per alcuni secondi, con schiocchi d’arma laser e fruscii da tiri ad impulsi.
    Nessun ostile all’interno.
    Il cogitator del suo elmetto si attivò, aprendogli un messaggio d’allerta. Amici in avvicinamento, i loro transponder personali stavano trillando. Si girò sulla schiena e si diede un colpo di reni per appoggiarsi al sedile. Si piegò su di un ginocchio e abbassò l’arma, mantenendo però l’indice vicino alla scocca del grilletto.
    I T’au potevano falsificare quei sistemi.
    Tolse la sicura con una leggera, mirata pressione e allineò l’arma alle spalle, sempre mirando verso il pavimento. «Hor-Hor-horla!»
    «Horla-hor-hor!», gli rispose una voce dall’accento Harona.
    Erano Amici.
    Abbassò l’arma e batté un pugno sul pavimento per tre volte, così da avvisarli del rischio di possibili tiratori all’esterno.
    Allo scalpiccio si unì un rimbrottare di giberne e zaini, seguiti dall’apparire sulla soglia della cabina d’un parà Garoniano. La sua uniforme e l’armatura anti-schegge erano variazioni appena più chiare di quella che aveva indosso lui, ma sulle maniche portava le tre strisce bianche e nere del 208esimo. Un cimiero crestato, sormontato da una lancia dorata, era dipinto sul fianco del suo elmetto, in piccolo e con colori bruniti.
    Il Garoniano scoccò un’occhiata al portellone divelto e poi zigzagò nella cabina, girandosi di colpo per controllare il varco. Abbassò in modo controllato il las-fucile, un Kantrael MG-K HP74 modello corto, e trasse un respiro attraverso il passamontagna.
    Ièn alzò un pollice, al quale lui rispose con un assenso. A sua volta, Hahàva batté la sua zona, poi sollevò un pollice.
    Forte di quei due avvisi, il Haronia posò una mano sulla cassa del suo las-fucile e alzò il mento. «Libera!»
    Rapidi e chini entrarono due suoi commilitoni, seguiti da Zhì e da Ikaròs. I quattro appena arrivati si dispersero all’interno, prendendo posizione dietro i sedili. Si coprirono a vicenda nell’ingresso, prima di mettersi al riparo.
    A gesti, Hahàva elencò sette presenti. Ognuno diede il proprio presente con un colpo sullo spallaccio, a partire da Ikaròs. Uno per lui e sette per Ièn, l’ultimo in quella conta.
    «Sette!»
    «Abitacolo sicuro», disse il terzo parà di Garon. Sulle spalle aveva un Kometar.
    Facendo cenno al Garoniano appena entrato di coprirgli le spalle, Ièn si volse a controllare la parete destra, trovandovi un intercom e una cassetta di primo soccorso nascosta dietro una tendina azzurra.
    A sinistra c’era un estintore portatile e una pulsantiera sormontata da un piccolo schermo. Erano apparecchiature di normale amministrazione. Drappeggiò la las-carabina sulle sue spalle e, con il sedile sempre lì a coprirlo dagli occhi di eventuali ostili, Ièn sganciò l’estintore. Lo capovolse senza alzarlo sopra alla propria testa.
    Interessante…
    Prese uno scryn attraverso lo HUD dell’elmetto e ripose l’estintore al suo posto, spingendo per bloccarlo tra i morsetti di metallo. Ora restava la cassetta del pronto soccorso da controllare. Poteva essere un caso, oppure potevano venire dallo stesso posto; verificarlo era meglio di far finta di niente.
    La staccò dai suoi affissi e se l’appoggiò sulle ginocchia. Sbloccò le due sicure premendo al centro e sollevò il coperchio. Kantrael si mosse per prendere la sua vecchia posizione. S’issò sulle ginocchia, sbirciando da sopra la consolle dei comandi.
    Due spari esplosero contro il bordo superiore della carlinga, strappandogli un mezzo sussulto. Scese sotto alla piastra e bestemmiò sottovoce.
    «Occhio...» gli mormorò Ièn.
    Lui alzò un pollice per dirgli che andava tutto bene, poi riprese fiato. «Sanno che siamo qui.»
    «Ya-aha. Hai visto il Devilfish?»
    «Cazzo, no. Lo stavamo cercando, ma quel bastardo è andato a nascondersi.»
    «Chiaro...» Tornò alla cassetta del pronto soccorso. A livello di fornitura, non era niente male. Prese una manciata di lacci emostatici dal loro alloggiamento e strinse le spalle, più a se stesso che ad altri. Potevano sempre tornare utili.
    E poi, rubare ai ladri non era un peccato. Lanciò degli altri lacci a Kantrael ed Hahàva, che li distribuì tra gli altri sull’abitacolo.
    C’era dell’altro di buono. Arraffò i due tubetti di bio-schiuma per placcare le emorragie esterne e li cacciò nelle tasche a ragnatela dei suoi pantaloni, passandone qualcuna ai commilitoni. Sul cupolino si riflessero gli incroci di un’altra selva di spari; lampi rossi e blu, sovrascritti gli uni sugli altri.
    Fermando il coperchio contro la parete, Ièn abbassò la testa. Focalizzò la visuale dello HUD sulle informazioni di provenienza e prese un secondo scryn, quindi sfilò il libretto delle istruzioni dal cinturino che lo teneva sdraiato contro il coperchio. Era un tascabile e la sua testata era scritta in triplice lingua. Gotico Basso, Aurelico e nei bizzarri glifi tondeggianti dei T’au.
    L’aprì. Sulla facciata di sunto, la dicitura Stampato in Iliatis, in Charteria Innumyra di Valore III gli confermò che veniva dai pro-T’au.
    «Trovato niente?»
    «Sì!» Fotografò quella dicitura, quindi ripose il libretto nella scatola e sbatté in giù il coperchio. Il ‘log, certo. Doveva trovare il ‘log. Sgusciò dietro al sedile del pilota e alzò gli occhi al tettuccio, colmo di comandi e levette.
    «E...»
    «Il nostro amichetto, qui, è aurelico.»
    Attraverso la linea a corto raggio, Ièn sentì la compagna ridere. Era uno sbuffo inacidito, il suo, con il sapore di quella finta sorpresa che si faceva davanti ad un regalo brutto. «Aurelikas...»
    «Bah, irodiki!», sbuffò il primo Garoniano entrato. Kantrael. Per ora l’avrebbe chiamato così. «Sempre i soliti traditori.»
    «Se tu comprassi una macchina da loro, non avresti nemmeno le ruote!»
    «O sarebbero sgonfie...», mormorò Ikaròs.
    Il secondo parà Garoniano, che maneggiava un Tintagel d’assalto, alzò appena la testa. «Questo prima o dopo che se le sarebbero scopate?»
    «Dopo. E senza pulire.»
    Tintagel annuì, indicando il commilitone elysiano con mignolo e pollice. «Davay
    Hahàva si guardò attorno. «Gente, dobbiamo muoverci.»
    «Yup...», le mormorò in risposta. Aveva sete, ma ci faceva caso solo adesso. Sganciò la sezione inferiore dell’elmetto e abbassò il passamontagna, trovando le sue labbra secche. Sganciata la borraccia tattica dalla cintura, bevve un sorso.
    «Dobbiamo muoverci, Libri.»
    Ièn si pulì le labbra con la manica. «Il ‘log.»
    «OK, ma spicciati.»
    Tirò su il passamontagna e ricollegò l’elmetto, trovando l’aria filtrata un po’ stantia e ferrosa. Ci si abituava, ma all’inizio dava sempre fastidio.
    Aggirò la triade dei sedili e, quasi bocconi a terra, gattonò in avanti verso la console di navigazione. Si riebbe sulle ginocchia e aprì i cassetti della documentazione, svuotandoli di netto sul pavimento. Patenti di navigazione, autorizzazioni, Ars Tecnika sullo shuttle e le sue capacità…
    «Allora?»
    «Non l’ho ancora trovato...»
    «Muoviti...» disse lei, avvicinandosi alla soglia della cabina di pilotaggio. Si portò dietro la parete, sgambettando curva e china. Girandosi per fronteggiare il corridoio, inforcò l’Accatran e ne spinse il calcio contro la spalla.
    Ièn spinse via i cassetti vuoti e allungò la mano nel varco che s’era formato al loro posto. Non c’era niente, solo un mezzo di polvere e una superficie di metallo. Cercò a tentoni una maniglia, ma non trovò nulla a cui aggrapparsi.
    «Ah, devono averlo preso.»
    «Che ne dici della Scatola Nera?»
    Certo, tanto me la devo scarrozzare io in giro… «Mmh, è alquanto esposta...»
    Hahàva strinse le spalle. «Libri, hai dieci secondi. Poi ce ne andiamo.»
    «OK.» Si appoggiò al bracciolo più vicino per sollevarsi sulle ginocchia. «Copritemi, la devo scollegare.»
    Borbottato un assenso, la compagna segnò a Kantrael di farle un po’ di spazio e lo sostituì presso la consolle. Spazzò le carte sparse a terra con il pugno, poi s’issò sopra ai comandi.
    «Vai!»
    Stando basso, Ièn saettò alla colonna di sinistra e si chinò. La Scatola Nera era infissa un braccio più in alto, dentro un rinforzo di metallo argentato. Una volta spostato l’Accatran perché non lo intralciasse, Ièn sfoderò il coltello. Lo infisse con un colpo secco nello spazio tra i sostegni e la scatola nera, strattonando per mettere alla prova la serratura.
    Era debole, poteva farla saltare. Ritrasse il coltello e attese. Nessun colpo. Questa volta i T’au non li avevano visti. Si piegò su di un ginocchio e riportò il coltello nel varco, poi fece leva verso l’alto. I sostegni schioccarono, rilasciando la Scatola Nera. La prese al volo con la sinistra e si lasciò cadere sul pavimento della cabina, appoggiando le spalle allo schienale dello zaino.
    «Eccola qui.» La stronzetta non era proprio leggera. Era un rettangolo di cavi e connessioni appena sganciate, non più lunga di venticinque centimetri. Pesava almeno un paio di chili, contando le batterie al suo interno. La rigirò per vedere il loro alloggiamento e sospirò.
    C’era la runa della radioattività. Batterie a lunga durata. Forse Thermo-Isotopi. La spinse nel proprio zaino e richiuse attentamente le cerniere.
    «Se ti chiedessi una pellicola di piombo e alluminio...»
    «Io ti direi che non ne ho», disse Hahàva portandosi di nuovo a ridosso della soglia. «E che dobbiamo muoverci.»
    Kantrael strinse le spalle. «Dai, alla peggio ci muori. Non è bello, non è terribile.»
    Ièn annuì. «Vero.»
    Prima di muoversi, fissarono le loro armi ai bulloni magnetici degli anti-schegge. Hahàva prese l’apripista, sgattaiolando in avanti con una mano stretta all’impugnatura della las-carabina. Rimasero chini e lenti nell’attraversare il corridoio, zigzagando dietro ai sedili per trovare copertura quando il fuoco sulle piste s’intensificava.
    Si fermarono oltre la soglia della poppa, dove cominciava un pianerottolo di metallo zigrinato. Una scalinata centrale, con ai propri bordi due ringhiere di sicurezza, portava in basso, alla stiva. Le luci di posizione erano rosse. Accanto c’era un ascensore chiuso, del modello che poteva trasportare poco più di duecento chili di massa.
    Tintagel e Kantrael lo guardarono per un secondo, ma Hahàva fece un cenno con la testa. «Uhm, no.»
    «No, no, no, chiaro. Certo che no...», disse Kantrael, appoggiandosi ai pannelli chiusi.
    Ièn inarcò un sopracciglio, lieto che non potessero vederlo. Con l’ascensore fuori discussione, non c’erano altre uscite che le scale.
    «Be’, gente… dobbiamo scendere.» Rovesciò un colpo d’occhi alla tromba. Erano scalini stretti e lunghi, impossibili da percorrere in massa. Si dovevano dividere in gruppi, assicurandosi che la retroguardia fosse in grado di coprire le loro spalle senza inciampare. «ID-ìes, prima. Sono Ièn, lei è Hahàva e lui è Ikaros. Cento-e-sessantaquattresimo. Siamo Elysia.»
    Kantrael tolse la sicura. «Vanka.»
    Il terzo ad essere entrato, quello con il Kometar, si girò a guardare l’abitacolo già alle loro spalle. «Yanuch. Yan, se vi fa piacere.»
    «Pyotr.»
    Ièn storse la bocca. «Davvero? Pyotr?»
    «Che ha di strano?»
    Sembra il suono di una scoreggia. «Niente, niente.»
    Animato da qualcosa, Vanka si mosse alla destra. Strappò un drappo di tela dalla rotaia in cima, scoprendo una teca di vetro alta e stretta. «Ma guarda un po’ cos’aveva il nostro amico aurelico, qui!»
    Avvicinandosi, Ièn ridacchiò. «Ma no, sul serio? Dici che è attivo?» Prima di fare o dire altro, riaprì la funzione sull’elmetto e prese uno scryn del contenuto della teca.
    Come lottando con sé stessa, Hahàva spostò il peso da uno stivale all’altro, poi si arrese e strinse le spalle con noncuranza. «Roger-Roger.»
    Dal B-1 non provenne alcuna risposta.
    «Oy! Roger-Roger, dai!»
    Di nuovo, nulla.
    Il B-1 era stato messo in posa, con le sue lunghe e sottili dita tinte di bronzo strette attorno ad una carabina blaster. Sulla sua testa da pecora c’erano ancora i tratteggi degli occhi e lo zaino alle spalle, in realtà un altro pezzo di Ars Technika, aveva una frusta di ricezione estesa.
    Accovacciandosi davanti alla teca, Vanka picchiettò con la canna del las-fucile la didascalia impressa. «Nu, Elysia. Direi che è spento.»
    «Eh, lo vedo. Quindi, il nostro amico ha anche tech-eresia a bordo.»
    «Mah, un vecchio droide delle Guerre dei Cloni? Chiamala eresia. Probabilmente è tutto fritto.»
    «Quelli dell’Altra Parte non fanno le cose come le facciamo noi. Non durano niente.» La teca era protetta da qualche sistema? Non poteva dirlo, da lì. «Solo, sarebbe bello fregarsi il suo Blaster. Roba da collezionisti. Ci possiamo fare dei quattrini seri...»



    Trivia:
    1) VCI: Vehiculum ac Com-bellum Infanterion, veicolo per combattimento dei fanti.
    2) Hammerhead: un corazzato di manifattura T'au. Li vedremo più avanti.
    3) 'hauler/yatmos: gli 'hauler sono navi da trasporto, gli yatmos pure. Non sono sinonimi, però. Lo Hauler è tendenzialmente più grande e di solito, non può direttamente operare in atmosfera. Gli Yatmos servono a scaricare il materiale da un hauler al suolo.
    4) Butyrimoi Digita: BUTTERFINGER. Praticamente hanno trovato una barretta Twix. Perché? Perché mi piacciono i twix e questo è quanto.
    5) Aurelikas: termine estremamente dispregiativo per indicare gli aurelici. Ancora più di aurelici.
    6) Roger-Roger&B-1: Sì, è un droide delle Guerre dei Cloni. Sì, qualcuno l'ha ottenuto in qualche modo. Sì, l'Altra Parte è la Galassia di Star Wars. Sì, noi sappiamo di loro e loro sanno di noi.


    Edited by dany the writer - 12/4/2023, 23:24
     
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    II



    I loro passi lungo le scale rintoccavano di rimbalzo sulle pareti e non gli piaceva affatto. Troppo rumore. In un luogo chiuso, era chiamarsi addosso la risposta del nemico.
    Davanti aveva i gradini, scuri e stretti. Lungo i muri, le luci di posizione emettevano una tinta presso il sanguigno. O era un sistema ausiliario a tenerle in piedi, oppure il proprietario di quello shuttle aveva un pessimo gusto estetico. Tenendo in considerazione la possibilità che fosse un aurelico, ambo erano opzioni valide.
    Quindi procedevano con calma deliberata, organizzati in tre tronconi; Ièn aveva preso la testa della formazione assieme a Pyotr, che manteneva il suo Tintagel pattern a doppia canna verticale pronto e controllato.
    In centro, sistemati a triangolo, avanzavano Zhì, Vanka e Hahàva.
    La retroguardia era composta da Ikaròs, che aveva optato per la carabina Accatran invece del las-lungo ADJ-V XMC68 Mod.B3HE Zevona Pattern, spalleggiato da Yanuch. Loro due procedevano più a ritroso che mantenendo i mirini in avanti; a condurli era proprio Vanka, tenendo fissa una mano sulla schiena di Ikaròs per dargli il tempo della marcia.
    Tattiche di Fuoco in Movimento e Squadre Combinate, che avevano ripassato nel corso delle settimane precedenti l’Operazione Militare Speciale del GlaGaron.
    Fatto segno al gruppo che potevano continuare con la discesa, Ièn sfiorò pian piano la scocca del grilletto con l’indice. «Dov’è finito il tuo drone?»
    Zhì sbuffò. Nessuna traccia di condensa davanti al suo elmetto. C’era un sistema di AC a bordo. «L’ho mandato a cercare il Devilfish
    «E…?» Ièn superò il dislivello, portando il piede a posare sul nuovo gradino. La loro superficie era zigrinata a diamante. Di solito, i T’au non lo facevano. Dall’esterno dello shuttle provenivano frequenti schiocchi di sparatoria e, inframezzati tra loro, i timbri più grevi di un rullio intermittente di scoppi vicini e lontani. Erano esplosioni.
    Tirando indietro la manica, Zhì espose il tablet legato al polso. Un segnale di Ripristino Connessione campeggiava a tutto schermo. «E si è beccato uno sparo di striscio. Non so come, ma si è impaurito e ora se ne sta nascosto a monculii
    Bello. «Mmh.»
    Accelerò rispetto alla compagna, prendendo il controllo del pianerottolo. Tracciò un semicerchio dalla destra alla sinistra, passando dalla penombra ai picchi illuminati dalle lampade d’emergenza. Nessun ostile in vista né IDE nascosti.
    Potevano procedere.
    Segnalò alla squadra di continuare l’avanzata e allungò il piede sul primo gradino subito dopo la fermata. Al contatto con la suola del suo stivale, il metallo strascicò una corta nenia e si acquietò.
    Dieci passi alla fine della tromba. Pyotr lo superò, prendendo in volata il controllo del fianco interno dell’avanzata.
    «Parete?», disse Ièn mantenendosi a mezza falcata dal pareggiare con il Garoniano. Si abbassò sul ginocchio destro, pressando il calcio della las-carabina contro lo spallaccio. Di nuovo, controllò lungo un arco che andava da avanti il commilitone fino alla sua destra.
    Pyotr ispezionò il muro che gli chiudeva la visuale interna, tastando lungo la sua superficie. Nessuna esplosione o trappola sistemata al suo interno. Ritrasse la mano, riprendendo una controllata impugnatura dell’arma. «È sicura.»
    Alzò il pollice perché fosse visibile a tutta la squadra e lo piegò verso le nocche, poi alzò e richiuse l’indice e il medio. Check Numero Due. Zhì si sganciò dalla formazione e attivò l’IntraScanner del suo elmetto, drappeggiando un sottile velo olografico sulla parete.
    «Non rilevo circuiti attivi.»
    «Buono.» Ièn chiuse la mano a pugno e riprese l’avanzata. «Fronte sicuro.»
    «Non ci sono tes-IDE?», esordì Vanka.
    «No.»
    «Ah, davay davay...»
    «Arrini, uh?»
    Pyotr annuì, avanzando dall’ottavo al settimo gradino. «C’eravate anche voi, ricordo.»
    Ikaròs borbottò un assenso. «Quel rotto in culo di Tarnquinus… ancora niente, Zhì?»
    «Mèshzìme
    Niente. Se tanto valeva tanto, valeva la pena di continuare. Riprese il proprio posto nella guida della formazione e accelerò. La base della tromba era rettangolare, uno stanzino che apriva su di un condotto telescopico per la stiva. Dal termine delle scale si mosse in avanti, prendendo il controllo del fianco sinistro della parete; aggiustò la presa sulla las-carabina e si sporse in avanti, spazzando l’area con uno scatto regolato.
    Il pavimento sotto i suoi piedi tremò. Dei missili da crociera sfrecciarono sopra allo Shuttle, lasciando l’eco delle loro grida sospesa a mezz’aria. Ièn s’immobilizzò in ginocchio, portando l’arma in posizione di guardia.
    Intenso, ma breve, un letto di vibrazioni attraversò lo shuttle.
    «Vang-Secundus A, qui. Esplosioni, Ore Diciannove su traverso quindici. Nostre!»
    «Ricevuto per notifica, Vang-Secundus A. Qui Vang-Sexta B, abbiamo visuale sulle esplosioni. Due hangar in fiamme.»
    «Sarysse in campo, evitate il sito. Distanza di sicurezza. Status sul VCI?»
    Ièn fece segno di abbassare il volume. Potevano sentirli. Un momento dopo, scosse la testa. Era stato trasmesso sul canale interno del Battaglione, non c’era audio in uscita dall’elmetto. Le possibilità che qualcuno sentisse erano più basse, per quanto non inesistenti.
    «VCI non localizzato. Abbiamo Occhi-in-Alto per ricerca, passo.»
    «Ricevuto, aspettiamo notizie.»

    Segnò alla squadra, che si era immobilizzata in posizione all’arrivo di quelle notifiche, di riprendere l’avanzata verso la stiva.
    Un paio di porte automatiche, chiuse, si trovavano quattro più avanti e tagliavano in due il transito. C’era una pulsantiera sulla destra e Ièn la inquadrò con il puntatore. Era inscritta con caratteri in Gotico Basso, a riprova che quello shuttle non era di manifattura T’au.
    Prima di raggiungerle, però, sulla sinistra c’era una porticina di metallo. Pyotr lo superò, tagliando in diagonale dalla scalinata, fermandosi al fianco destro. Ripeté le sue stesse operazioni, controllando il passaggio e poi portando il Tintagel a tiro della porta.
    Via Libera.
    Hahàva raggiunse Ièn e gli mise una mano sulla spalla, dandogli un sonoro colpetto per avvertirlo della sua posizione. Schiocchi bassi nella penombra rossa.
    Ièn si spinse in avanti, arrestandosi davanti alle porte automatiche. Non c’era un riparo ampio a sufficienza sui loro lati; quindi, non poteva che restare a bloccarle. Pyotr si attestò un passo indietro rispetto a lui, chinandosi in ginocchio e inforcando il las-fucile d’assalto. Un singolo, bassissimo click disse che aveva disinnescato la sicura.
    Le loro posizioni presso la parete furono rilevate da Zhì e da Vanka, rapidi a trasmettere il Via Libera al resto della formazione. Lo scalpiccio che seguì durò un paio di secondi. Dalla porticina sul lato veniva soltanto silenzio.
    Hahàva inquadrò la serratura, una di quelle a cipolla, per evidenziarla e trasmise un ping. Pyotr fece un cenno con la testa e lei si mosse in avanti, lasciando l’arma alla destra per portare la sinistra sulla maniglia.
    Ièn gli segnalò di aspettare. Ispezionò le porte automatiche con l’Accatran, in cerca di telecamere o sistemi di sicurezza. Non c’era niente d’evidente né sopra, né sotto i cardini che la fissavano alla parete ad arcata del condotto.
    Toccò gli occhialoni, attivando la visuale termica. Da un secondo all’altro, il mondo perse i suoi colori originali e si trasformò in un miasma di stinti temi freddi, attraversato dalle correnti dell’AC, dalle tubature e dai condotti dell’energia di bordo.
    Al di là della porta non poteva discernere figure umanoidi o pseudo-tali. Non voleva dire che non potessero esserci, ma se fossero stati lì...
    Si volse allo stanzino e sollevò il pugno. Pollice in media. Richiuse il pugno, alzò l’indice, fece tornare la mano a pugno. Disattivò la visuale termica e Pyotr prese il controllo della porta d’accesso alla stiva, sollevandolo dal doverla tenere bloccata. I tonfi dei suoi passi, foderati in stivali da lancio neri, si persero nei rimbalzi contro le pareti. Un’esplosione risuonò distante, ruzzolando un torrente di tremori sullo scafo dello shuttle.
    «Ci dobbiamo muovere...», sussurrò Ikaròs. Aveva ragione. Sette di loro bloccati lì erano sette anime in meno impegnate nel resto dell’attacco.
    Sette anime e tre Kometar.
    Ièn arretrò d’un passo e mezzo, appostandosi dietro allo zaino tattico di Hahàva. Le segnalò di procedere con il dorso della mano destra, puntata all’uscio, e lei non se lo fece ripetere due volte. Preso un respiro, afferrò la maniglia e tirò a sè la porta.
    «Stop!», sibilò Ièn, imbracciando l’Accatran con sicurezza. L’uomo sotto il suo mirino sobbalzò contro la parete, urtando di striscio il bagno chimico che stava alla sua destra. A prima vista era disarmato, ma non c’era mai da fidarsi.
    Vestiva una tuta di volo grigioverde chiara, senza mostrine in evidenza. Hahàva scartò a lato; caricando all’interno con un colpo di reni, Ièn lo bloccò contro la parete. «Non una parola.»
    L’uomo gli afferrò il braccio, ma il ronzio di un dardo laser in caricamento lo fece desistere. La sua presa s’indebolì in due secondi e poi staccò le mani, alzandole perché fossero in bella vista.
    Ièn picchiettò due volte in rapida successione con l’indice sulla scocca del grilletto. La situazione era sotto controllo. «Cosa ci fai qui?»
    «Io? Sono solo un manovale!», disse l’uomo, continuando a tenere le mani alzate. «Non so niente!»
    Hahàva si spinse all’interno e gli tirò giù la cerniera dell’uniforme. Infilò la mano nel colletto della tunica sottostante e tirò, strappando un pendente. Arretrò prima di controllarlo, facendo scendere la las-carabina e aprendo la mano.
    «Cos’è?»
    La compagna gli rispose sollevando la refurtiva alla luce delle lampade, prima d’infilarla in tasca. «Una chiave d’innesco. È il pilota dello shuttle.»
    «Solo un manovale, uh?»
    «Lo guido dove mi dicono di guidarlo, non faccio altro!»
    «Abbassa la voce, idiota!», sibilò Vanka. Ièn annuì, senza staccarsi di dosso dal pretendente manovale. Il suo Gotico Basso era segnato da un chiaro accento di matrice aurelica. «O peggio
    L’aurelico sgranò gli occhi. «No!»
    «Abbassa. La. Voce», Ièn lo incalzò, spingendolo a ridosso della parete senza lasciare del tutto la soglia. Era meglio avere un piede all’esterno, così da poter arretrare in sicurezza se fosse stato necessario. «Ora, è chiaro?»
    Lui annuì.
    «Se non sai niente, perché ti stavi nascondendo?» Era una domanda stupida, che meritava una risposta dello stesso livello. Qualcosa del genere “Perché fuori dalla finestra c’è la guerra, ecco perché”, ma non era pensata per essere una domanda importante.
    Era solo un metro per vedere come reagiva.
    «Scherzi? Ci sono esplosioni a catena là fuori!»
    «E ti nascondi qui al cesso», commentò Hahàva, aspra. «Cos’è, ti chiami Madtia?»
    Da dove l’aveva tirato fuori, quello? A giudicare dall’espressione che si era fatta sulla faccia dell’aurelico, ne sapeva quanto lui.
    «Chi cazzo è Madtia?»
    Eh!
    «Facciamo noi le domande, qui.»
    Ièn aggrottò la fronte e abbassò gli occhi. Sospirò stanco, lieto che nessuno dei suoi compagni d’armi lo potesse vedere o sentire. Sì, era proprio il caso di metterle un freno. Stava perdendo il controllo della situazione. Le segnalò d’aspettare e lei arretrò d’un passo, rintoccando suoni di stivali contro le pareti strette, quindi squadrò l’aurelico in viso. «Cosa ci fai qui, Aurelia?»
    «Te l’ho detto, trasporto quel che mi dicono di portare», mosse gli occhi in direzione della stiva. Voleva che la controllassero? «E… e poi lo porto dove mi dicono.»
    «Uh-uh...», borbottò Pyotr. «Vohllno
    Gli altri due garoniani ridacchiarono al suono di quella parola. Ièn chiuse gli occhi per togliersela di torno, poi s’accigliò: «E chi è che ti dà ordini, Madtia?»
    «Dhzjak’», s’intromise Vanka. «L’Uomo Nudo Con Il Coltello?»
    «Sacro Trono, Lui è qui?!»
    «Stai buono, Aurelika. Non è qui. Allora, chi ti paga?»
    «Beh, io non lo so...»
    «E cosa trasporti con il tuo bello shuttle?»
    «Mah, cose varie. Casse che mi vengono portate da altri tizi», provò a gesticolare con le dita e ciò attrasse una serie di scatti di las-armi. Con molta saggezza, Aurelia smise di muoversi. «Uhm, questo genere di cargo comunque.»
    «E dove sono gli altri membri dell’equipaggio?»
    L’interrogato ridacchiò, alzando gli occhi al soffitto del bagno chimico. «Ah, equipaggio! Questo pensa che io abbia addirittura un equipaggio...»
    Va bene. Saettò in avanti un destro, sferrandolo per fare male piuttosto che per neutralizzare il bersaglio. Non era il suo pugno migliore e lo stava portando con la mano destra.
    Era soltanto un avvertimento. Colpì il pilota allo sterno, sopra alle costole. Lui impattò contro la parete, bofonchiando un lamento a mezza voce.
    Non erano più in contatto. Portata la destra all’Accatran, Ièn rimosse la sicura. Il ronzio della camera di focalizzazione riempì il bagno.
    «Ci sono cinque caffè su di sopra.»
    «Tre, razza d’idiota! Sai… contare?», sbuffò l’Aurelia, fermandosi dopo l’ultima parola. Ièn alzò la presa della las-carabina, ritirandosi sulla soglia.
    «Ecco.»
    «Mi...», si guardò intorno, massaggiandosi dove Ièn l’aveva colpito. «Beh, mi piace il recaf.»
    «Su di uno shuttle privato che non ha un ‘log di volo. E che guidi da solo.»
    «Sono qui sotto!», urlò l’aurelia, infilando la mano nella tuta e sfoderando una pistola. «Qui! Gli imperiali! Aiuto!»
    Fottuto traditore! Ièn tirò il grilletto. Nello stesso istante, tre dardi laser gli sfrecciarono sopra alla spalla, unendosi ai suoi nell’inchiodare il traditore alla parete; il suo torace esplose a raggio, appiccicando frammenti d’osso e sangue bollente alle pareti.
    Hahàva entrò d’urto, accompagnata dai rintocchi delle giberne e dello zaino, e Ièn si spostò a lato per permetterle di muoversi. Scartando a lato per avere il lavabo alle proprie spalle, lei schiacciò il piede sul petto del corpo e lo bloccò contro il pavimento. «Aurelika!», sibilò a denti stretti. Un denso filo di fumo saliva dalla canna del suo Accatran.
    Ièn abbassò l’Accatran.
    «Bersaglio azzerato.»
    «Tjà, tak Cloissu?» rise Vanka. In effetti, era stato un aggiornamento di status piuttosto inutile. «’Sto bastardo avrà chiamato gli altri due su di noi.»
    La stiva! Loro dovevano essersi nascosti lì. Forse lui non aveva fatto in tempo a superare le porte.
    Uscì dal bagno e scavalcò Hahàva, riportandosi al fianco di Pyotr. Lo afferrò per la collottola e lo spinse contro la parete, il più possibile lontano dal fronte delle porticine d’accesso. Il fischio d’una sventagliata di calibri seguì lo spalancarsi di fori d’uscita sulle loro ante. I vetri opacizzati, ad altezza d’uomo, esplosero in frantumi che sibilarono verso le scale. Acuti rimbalzi di metallo riempirono lo stretto corridoio d’eco ferrose, seguiti da un'interruzione nel fuoco di sbarramento.
    Pyotr s’issò in piedi e spinse il suo Tintagel nel varco. Le due canne dell’arma brillarono rosse, scaricando in avanti un fiotto di dardi laser. Tracciò una veloce arcata con l’arma, sparando a ventaglio in avanti per poco più d’un secondo.
    «Uomo a terra!», avvisò Ièn, arretrando presso Vanka. Con un gesto rapido segnalò che dovevano spostarlo subito. Il commilitone era supino, una mano premuta contro la coscia destra. Gli mise una mano sulla spalla per rassicurarlo e poi alzò la sinistra, puntando alla stessa altezza dei vetri in frantumi. Uno scalpiccio irruppe alle sue spalle. Ikarus si chinò per fare da scudo al ferito, coprendogli il viso con il braccio.
    «Eph-be!»
    Una pressione sull’innesco del lanciagranate sotto-canna e uno sbuffo di vapore gli trasmise una scossa lungo il braccio. La granata lampeggiante volò nel varco, scoppiando una luce bianca intensa e producendo un fischio assordante.
    «Vai, vai, vai!» Ièn sollevò Vanka dai piedi e seguì Ikaròs e Zhì nel portare il ferito presso la base della scalinata. Si separò da loro e spazzò la tromba con un controllo dell’arma, portando la destra a sostenere il lanciatore, adesso vuoto.
    «Ammazza quei figli di puttana, Ianni!», urlò una voce di donna dalla stiva. Stupida, aveva appena denunciato la loro posizione. «Cazzo, i miei occhi!»
    Aprì l’inserto di carica tirando una levetta e strappò dalla cintura un nuovo ordigno, inserendolo nella camera con un colpo secco. La chiuse tirando la leva, quindi posò un passo sull’ultimo pianerottolo e si abbassò in ginocchio.
    Nessun ostile sulle scale, o in arrivo. Controllò di nuovo, portando l’arma anche a tenere sotto tiro la cabina del piccolo ascensore. Segnalò che la situazione su quel lato era sicura e ritornò dal ferito. Vanka aveva posato a terra la sua arma per dedicarsi a tenere la ferita. A prima vista, non era slabbrata. Il colpo non si era frantumato.
    Doveva essere integralmente infisso nella carne. «Polshi suk...»
    «Buono, phràs», gli disse Zhì, portandosi sull’altro lato. Gli sollevò la gamba e tastò con la mano lungo il calzone e le placche balistiche. Sollevò un pollice dopo pochi attimi. «Nessun foro d’uscita.»
    Vanka quasi fece per annuire, poi guardò il sangue che gli aveva macchiato le mani. «Figlio di puttana! Figlio di puttana!»
    «Stai buono, non togliere il colpo!»
    «Cazzo, è quasi all’osso!»
    «No, tranquillo. Non è così in profondità.» Detto ciò, Ièn squadrò Zhì. «Hai linea per contattare Mahrat? O Tiber?»
    Zhì annuì e sfoderò il suo tablet. Aprì una delle giberne, tirandone fuori un piccolo treppiede che sosteneva un’ancora più piccola parabola ricetrasmittente. Li sistemò ai propri piedi e collegò un cavo dall’antenna al tablet.
    «Vang-Secundus oeithir Unità Alleata InProx, qui Vang-Primus A. Aperta, rimbalzate il segnale. Abbiamo un Cargo Duecento-e-Dieci, ripeto Cargo 210. Richiesto Medevac. Alleato, Garon, 208esimo. Ripeto, Medevac per Cargo 210...»
     
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